Di Roberto Saliba ***

Il viaggio in Armenia di papa Francesco può essere letto in molti modi. Ovviamente la vicinanza al popolo armeno è la prima chiave. Il messaggio, la memoria base della riconciliazione, la seconda. Ma anche il “timing” di questa visita non può essere tralasciato. Il papa si è recato in visita alla Chiesa sorella armena, mentre il Caucaso e il Medio Oriente sono avvolti da conflitti tremendi, proprio nei giorni in cui a Creta si celebrava dopo un secolo di negoziati il Concilio ortodosso. La Chiesa russa, nazionalista e identitarista, all’ultimo momento si è sfilata. Mosca asserragliata sul proprio splendido isolamento zarista ha però perso la sua egemonia panslavista per via della partecipazione all’incontro di Creta della Chiesa ortodossa di Serbia.

Il papa ha forse accompagnato a distanza quel grande evento ecumenico, essenziale per la prospettiva dell’unità dei cristiani, che ha prodotto un importantissimo documento conclusivo, nel quale tra l’altro si legge:  “La Chiesa ortodossa – si afferma nel messaggio conclusivo – esprime la propria preoccupazione per la situazione dei cristiani e delle minoranze perseguitate del Medio Oriente e altrove. Essa si appella alla comunità internazionale della regione per la protezione degli ortodossi e degli altri cristiani, così come per tutte le popolazioni della regione che hanno un diritto inviolabile a vivere nel loro Paese d’origine come cittadini che godono di eguali diritti. Il nostro Concilio esporta tutte le parti a operare senza sosta e a compiere ogni sforzo necessario per la risoluzione dei conflitti armati in Medio Oriente, per porre a essi un termine e permettere il ritorno nelle loro casa di coloro che ne erano stati cacciati». Quindi si chiede di fare il massimo per accogliere quanti sono in fuga.

E proprio questa accoglienza è il punto centrale del documento congiunto firmato da papa Francesco e il catholicos di tutti gli armeni. “Memori di quanto Gesù insegnò ai suoi discepoli quando disse: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25, 35-36), chiediamo ai fedeli delle nostre Chiese di aprire i loro cuori e le loro mani alle vittime della guerra e del terrorismo, ai rifugiati e alle loro famiglie. E’ in gioco il senso stesso della nostra umanità, della nostra solidarietà, compassione e generosità, che può essere espresso in modo appropriato solamente mediante un immediato e pratico impiego di risorse. Riconosciamo che tutto ciò è già stato fatto, ma ribadiamo che molto di più si richiede da parte dei responsabili politici e della comunità internazionale al fine di assicurare il diritto di tutti a vivere in pace e sicurezza, per sostenere lo stato di diritto, per proteggere le minoranze religiose ed etniche, per combattere il traffico e il contrabbando di esseri umani.”

Senza la costante spinta di papa Francesco, che non vede più l’unità come una sottomissione a Roma, ma come un’unità poliedrica, il cammino ortodosso sarebbe stato ancor più tribolato e lento. E il punto d’incontro non può che essere nella cultura dell’accoglienza e del dialogo con l’altro e con la modernità, con buona pace di Mosca.

*** Giornalista freelance con base a Parigi

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