Dietro ai numeri e ai volti dei candidati sconfitti e di quelli ancora in gara, c’è un dato enorme che spunta dalle cifre ancora sommerse di questo turno amministrativo: al Pd il governo Renzi fa male, al centrodestra fa invece bene, ai cinquestelle ancora meglio. Come sia possibile che due anni abbondanti di un governo cosiddetto del fare, che ha iniziato la sua corsa con lo slogan “una riforma al mese”, tanto per farci capire di quale fenomenale travolgente capacità fosse detentore, debba raccogliere cocci un po’ dappertutto è questione che si apre oggi.
Mettiamo tra parentesi i risultati di Milano e Roma. La crisi di tenuta di questo partito è evidente a Torino, dove Piero Fassino raggiunge la soglia più che minima di quelle che erano le proprie aspirazioni, e a Bologna dove gli elettori tradizionali rifiutano di andare a votare (l’astensione lì è più alta che altrove) e se ci vanno regalano a Virginio Merola un risultato modestissimo. Si avvia al ballottaggio con i consensi al lumicino. Renzi non guadagna neanche Ravenna (città dove aveva chiuso la campagna elettorale) al primo turno. Nel Mezzogiorno è addirittura ecatombe: sparisce quasi a Napoli, ininfluente a Cosenza dove il suo candidato viene asfaltato dal centrista Occhiuto. In due città, Salerno e Cagliari, vede la luce ma è merito altrui. A Salerno la vittoria è di Vincenzo De Luca, in Sardegna il sindaco uscente non è un ragazzo di bottega ma proviene dall’esperienza di Sel.
Se aggiungessimo il livello del Pd romano (quattordici per cento) e il bottino raccolto da chi doveva essere il campione del renzismo a Milano (Sala praticamente pareggia con Parisi) avremmo la somma di quel che resta al partito del Nazareno: poco più che un pugno di mosche. Certo, Roberto Giachetti salva almeno la faccia ma non cambia la declinazione politica di questo risultato.
E il centrodestra? Dopo anni di assenza, astenia e forse di più, con fenomeni di vero e proprio ascarismo nei confronti di Renzi (da Verdini in giù è stato tutto un fuggi fuggi in soccorso del premier) si ritrova con la pancia piena di voti. Voti che cambiano proprietario ma danno l’esatto risultato finale. Appena il centrodestra troverà un leader minimamente credibile (Stefano Parisi?) palazzo Chigi tornerà ad essere la destinazione plausibile, credibile e soprattutto probabile malgrado lo sfascio prodotto dal ventennio berlusconiano.
E’ questa la più grande e forse la più desolante novità.