Era il capo dell’antidoping russo, ma sembrava più che altro un bartender. Serviva cocktail dopanti a base di Chivas agli uomini e Martini alle donne. Gli altri ingredienti erano steroidi: metenolone, trenbolone e oxandrolone. Così Grigory Rodchenkov, l’uomo che ha gestito il laboratorio antidoping della Russia fino al report Wada che ha smascherato il “doping di Stato”, avrebbe aiutato gli atleti durante i Giochi di Sochi. Cin cin prima delle gare, e pure dopo visto che poi sciatori, pattinatori e uomini-jet sui bob vincevano sulle nevi e sui ghiacci di casa. Talmente tanto da trasformare l’anonimo sesto posto nel medagliere del 2010 in un primo, inarrivabile, piazzamento. “Almeno 15 medaglie sono false, tra cui quelle della squadra dello sci di fondo e quelle del bob”, ha ammesso Rodchenkov durante le riprese di un documentario, come racconta il New York Times, aggiungendo che “oltre cento campioni d’urina sono stati scambiati o alterati”.

Nel grande show delle Olimpiadi invernali organizzate in casa, secondo il racconto dell’ex capo del laboratorio, un ruolo fondamentale lo avrebbero giocato i servizi d’intelligence. Come aveva sottolineato ilfattoquotidiano.it nelle ore successive al rilascio del report della Wada, a Sochi il controllo dell’Fsb, l’ex Kgb, era stato capillare. Una vera e propria spy story. E il racconto di Rodchenkov collima perfettamente con quanto gli ispettori dell’Agenzia mondiale antidoping avevano raccolto durante la loro indagine, che ha portato alla sospensione della Russia, sulla cui partecipazione a Rio la Iaaf deciderà il prossimo 17 giugno. I Giochi voluti e organizzati da Vladimir Putin videro la presenza di 007 nei laboratori dove si svolgevano i controlli. “Arrivò un uomo che lavorava per i servizi e chi chiese di indicargli le provette che usavamo per analizzare le urine. Era interessato a sapere quale fosse l’anello di metallo con cui vengono sigillate. Ne portò via un centinaio”. E poi c’erano i “turni extra”, notturni, per aggiustare tutto. “Avevamo un laboratorio-ombra, illuminato da una sola lampada. Passavamo le bottiglie di urina attraverso un buco scavato a mano nel muro così da essere pronti per i test del giorno successivo”, ha raccontato Rodchenkov.

Da almeno un anno, secondo la sua testimonianza, la Russia preparava anche questo ‘dettaglio’ dell’evento. La struttura che doveva aiutare gli atleti era nota anche ai vertici del governo, come il ministro dello sport Mutko. “I ragazzi sono stati straordinari. Queste sono accuse senza senso”, ha replicato dopo la pubblicazione dell’articolo da parte del Nyt. Ma le parole del capo del laboratorio antidoping tra il 2005 e il 2015 sono un remake del quadro affrescato dalla Wada. E ribadito pochi giorni fa durante la trasmissione 60 Minutes della Cbs da Vitaly Stepanov, ex dipendente dell’Agenzia antidoping di Mosca e informatore della Wada dal 2010. “Condurremo le indagini senza indugio”, ha affermato l’Agenzia internazionale antidoping preannunciando un terremoto-bis dopo lo scossone di novembre. In seguito alla pubblicazione di quel report, Rodchenkov venne invitato a dimettersi dalle autorità e ora vive a Los Angeles con la sua famiglia. Si è trasferito negli Stati Uniti perché preoccupato per la sua incolumità. Lo scorso febbraio, due suoi collaboratori sono morti nel giro di poche settimane per un infarto e un incidente stradale. Sembra davvero una spy story. Purtroppo nella Madre Patria, anno domini 2016, è tutto vero.

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Sochi 2014, New York Times: “Decine di atleti russi coinvolti in doping di Stato”

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