Uccise la donna che voleva troncare la relazione con lui e nascose il corpo dentro a un congelatore, dove la polizia lo ritrovò quasi venti giorni dopo. La Corte d’assise d’appello di Bologna ha confermato i 30 anni di reclusione per Giulio Caria, il 37enne muratore sardo, imputato per l’omicidio della allora convivente, Silvia Caramazza. La commercialista di 39 anni, figlia di una agiata famiglia cittadina, secondo la ricostruzione degli investigatori fu uccisa tra l’8 e il 9 giugno 2013. Il cadavere fu però ritrovato nell’abitazione di viale Aldini, pieno centro città, il 25 giugno successivo, chiuso dentro una busta nera, congelato in posizione fetale. Caria, che si è sempre dichiarato innocente, fu invece rintracciato alcuni giorni dopo il ritrovamento del cadavere nelle campagne del suo paese Berchidda, in provincia di Olbia e Tempio, con l’auto della vittima.

Gli uomini della Squadra mobile di Bologna sfondarono la porta dell’appartamento dopo la denuncia della scomparsa della donna da parte di due amiche di Silvia, insospettite dalle risposte evasive al telefono di Caria sulla ragazza. Secondo la sentenza di primo grado, arrivata dopo un processo in rito abbreviato, Caria quel 7 giugno colpì per sette volte la ragazza, probabilmente con un attizzatoio da camino, fracassandole il cranio. Caria, aveva scritto nelle sue motivazioni il gup Gianluca Petragnani Gelosi, per prenderle un anello le fratturò un dito e le fece dei tagli con un coltello. Il movente, secondo il giudice di primo grado, sarebbe stato di ordine economico: ci fu cioè secondo il gup una “precisa e duratura attività di sopraffazione volta a piegare la volontà” della donna “isolandola dai parenti”, così da “renderla succube delle sue decisioni al solo scopo di sfruttarne le disponibilità economiche”. E quando Caramazza “ha cercato di liberarsi dal giogo in cui l’aveva costretta, facendo crollare i suoi sogni parassitari, Caria l’ha ferocemente uccisa”. Ora ci sono 90 giorni per capire se anche la Corte d’assise presieduta dal giudice Pierleone Fochessati, confermerà, oltre alla condanna, anche la ricostruzione giudiziaria del giudice di primo grado.

L’imputato, che è detenuto in carcere a Pesaro, non era presente al momento della lettura della sentenza. Ad assisterlo in aula c’era un avvocato d’ufficio Monica Varricchio. Nelle scorse settimane Caria aveva prima chiesto un rinvio del processo di appello per motivi di salute: aveva detto infatti di soffrire di “ansie processuali”. Ma la richiesta era stata respinta dopo una visita medica. Aveva poi volte comunicato per due volte il cambio di avvocato arrivando persino a chiedere la nomina (poi respinta) come suo difensore, di un avvocato di parte civile. Caria probabilmente voleva allungare i tempi del giudizio, forse con l’intenzione di fare scadere i termini della sua custodia cautelare tanto che la procura generale aveva parlato “di una strumentalizzazione delle garanzie di difesa”. Così, per evitare ulteriori proroghe, nei giorni scorsi la Corte d’appello aveva nominato in via preventiva l’avvocato Varricchio, ordinandole di studiarsi gli atti processuali, in modo che il processo potesse svolgersi in caso di altri imprevisti. E così è stato: peraltro appena 24 ore prima della sentenza anche l’ultimo avvocato di fiducia nominato da Caria aveva rinunciato all’incarico.

I giudici della Corte d’appello hanno confermato anche i risarcimenti alle parti civili: ai parenti di Silvia Caramazza, assistiti dagli avvocati Fabio Pancaldi e Federico Canova, al Comune di Bologna, rappresentato dall’avvocato Susanna Zaccaria e all’Udi (l’Unione donne in Italia), in aula con l’avvocato Rossella Mariuz.

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