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Uno dei temi più discussi e innovativi del mondo del lavoro è oggi quello dello smart working (o lavoro agile), cioè una nuova forma di svolgimento del lavoro che ripensa in modo totale a come organizzare la giornata o la settimana lavorativa di ogni singolo dipendente. La diffusione delle nuove tecnologie permette, infatti, di rendere la presenza fisica in ufficio non più necessaria e, quindi, di consentire che parte delle prestazioni vengano svolte da casa o in altri luoghi, scelti di comune accordo tra datore di lavoro e lavoratore in quanto più compatibili con le esigenze personali (spazio/tempo) del lavoratore.

Si tratta di una nuova filosofia manageriale fondata su due pilastri fondamentali: la fiducia nelle persone e nella loro capacità di raggiungere obbiettivi anche al di fuori dal contesto del classico ufficio e l’abbandono del concetto (perverso) che lavoro solo se sto in ufficio fino a tardi lavoro, mentre se esco presto sono un fannullone.

Insomma, si tratta di dare alle persone flessibilità ed autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare per svolgere la prestazione lavorativa, in cambio di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Un vero cambio radicale di mentalità sia per i lavoratori coinvolti, che per i manager che devono abituarsi a perdere quel contatto e controllo fisico sui propri riporti, cui sono stati per anni abituati. La fantasia nell’applicare questi concetti può non avere limiti, se solo si pensa che nelle realtà più innovative degli Usa il concetto di ufficio come normalmente lo concepiamo è sparito, avendo a che fare con open-space dove ognuno la mattina (se autonomamente decide di andare in ufficio) si accomoda in una postazione di lavoro qualunque o prenota una sala riunioni (delle tante disponibili) se deve fare una riunione di team. Diversamente può lavorare collegandosi da remoto, non importa quando e da dove.

In Italia il fenomeno ha una sua importante diffusione (anche grazie ad ottime relazioni sindacali ed a confronti costruttivi sul tema) e può avere risvolti assolutamente positivi sia per i datori di lavoro, che per i lavoratori: ad esempio, sulla base delle ricerche condotte dagli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano è emerso che i lavoratori coinvolti in progetti di lavoro agile abbiamo risparmiato in media 176 ore all’anno per gli spostamenti ed abbiano, così, guadagnato tempo per potersi occupare dei propri interessi; contemporaneamente le aziende hanno registrato un incremento della produttività di circa il 20 per cento, accompagnato da un risparmio dei costi di gestione degli spazi degli uffici fino al 30 per cento.

Questi casi di successo sono certamente dovuti al fatto che le aziende hanno coinvolto le organizzazioni sindacali, riconoscendo loro un importante ruolo di mediazione e di condivisione di obbiettivi. Esistono casi più controversi dove il lavoro agile sembra essere più il risultato di una imposizione dall’alto e meno una scelta condivisa, con conseguente rischio di perdita di tutte quegli aspetti positivi che i sostenitori i questa rivoluzione vedono.

Questa la vera incognita del lavoro agile: quello di diventare uno strumento di gestione delle persone non condiviso. Senza reale comprensione da parte dei lavoratori e dei manager coinvolti di cosa significhi “lavoro agile” e senza piena condivisione delle modalità di gestione di questa nuova modalità di rendere la prestazione lavorativa, lo smart working rischia di diventare uno strumento pericoloso e controproducente.

Ovvio che per poter comprendere e condividere il singolo lavoratore deve essere posto su una base paritaria rispetto al datore di lavoro: ci vuole qualcuno che possa indicare al primo, in modo chiaro, pregi e difetti del lavoro agile (traducendogli i termini legali) e che gli chiarisca diritti e doveri connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa “in modalità agile”. Insomma, è necessario che il lavoratore venga affiancato da un soggetto qualificato che possa colmare il gap psicologico e culturale che indubitabilmente esiste nei rapporti con il datore di lavoro. Tutto ciò è stato, nei casi di successo sino ad oggi registrati, assicurato dalla presenza dei sindacati, che hanno concordato a priori i contenuti più importanti dei singoli accordi individuali.

Il problema sorge dal fatto che è attualmente in discussione al Senato un disegno di legge di iniziativa governativa (il DDL 2233), che non assicura alcuna di queste garanzie per il lavoratore. L’art. 14 prevede, infatti, che sia sufficiente un accordo individuale il cui contenuto è integralmente rimesso alla trattativa tra datore di lavoro e singolo lavoratore, privo di alcuna assistenza. Quindi, il lavoratore determinerà nel rapporto faccia a faccia con il datore di lavoro una serie di aspetti di primaria importanza nell’economia del proprio contratto:

  1. le modalità di esecuzione della prestazione svolta al di fuori dei locali aziendali;

  2. le modalità di esercizio del potere direttivo;

  3. quali siano gli strumenti per l’esecuzione della prestazione lavorativa al di fuori dell’azienda;

  4. quali i tempi di riposo e

  5. quali le condotte che, in aggiunta a quelle previste dal codice disciplinare del CCNL, possono dare luogo all’applicazione di sanzioni.

Si tratta di aspetti assolutamente rilevanti, in relazione ai quali, in mancanza di un’effettiva parità contrattuale, il rischio della prevaricazione della parte debole è forte o meglio rimessa alla buona volontà ed alla correttezza del datore di lavoro. Speriamo che la fiducia sia ben riposta!

Forse era meglio il vecchio sistema (quello cui sono stato educato) in cui il lavoratore era considerato la parte debole. Per tale motivo era nato il diritto del lavoro: garantire un trattamento minimo di garanzia al lavoratore, solo migliorabile nella trattativa individuale ed assicurare che, laddove si volesse rinunciare a diritti o prevedere un trattamento inferiore al minimo o modifiche sostanziali al contratto, la volontà del lavoratore fosse genuina e spontanea, grazie all’intervento obbligatorio di appositi strumenti di garanzia, quali i rappresentanti sindacali o gli uffici del Ministero (le c.d. sedi protette).

Forse, per pura prudenza e per non rimettersi pedissequamente alla correttezza del datore di lavoro, sarebbe bastato prevedere che, in assenza di accordi sindacali sullo smart working, il contenuto dell’accordo individuale sul lavoro agile dovesse essere sottoscritto in una sede protetta.

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