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Trivelle, dopo Petroceltic anche Shell rinuncia alle prospezioni in mare. Il golfo di Taranto tira un sospiro di sollievo

In una lettera inviata al ministero dello Sviluppo economico la multinazionale annuncia il dietrofront. Fra i motivi il calo del prezzo del petrolio, l'introduzione del limite delle 12 miglia per le ricerche e l'incertezza della politica italiana in tema di idrocarburi. Esultano i comitati No-Triv che dopo le Tremiti incassano un'altra vittoria

Shell Italia rinuncia alla ricerca di gas e petrolio nel golfo di Taranto, seguendo la stessa strategia della Petroceltic, che nelle scorse settimane ha abbandonato i progetti al largo delle Tremiti. Solo che mentre per la compagnia irlandese si trattava di una scelta obbligata (a causa della mancanza di capitali) per la Shell si tratta di una decisione ponderata.

In una lettera inviata al ministero dello Sviluppo economico la multinazionale ha annunciato il dietrofront rispetto a due istanze presentate nel 2009 e quasi in dirittura d’arrivo. Il calo del prezzo del greggio è sicuramente tra i fattori che ha portato a questo epilogo, ma non l’unico. La riperimetrazione delle aree interessate (imposta dalle norme contenute nella legge di Stabilità) e l’incertezza sulla strada che l’Italia vuole percorrere in tema di idrocarburi hanno contribuito al cambio di rotta. Anche geografico. Perché ora Shell punterebbe sul Medio Oriente. In particolare sull’Iran. Con la recente fine dell’embargo durato quasi quattro decenni, infatti, Teheran vuole recuperare il terreno perduto. Così la multinazionale potrebbe investire nel Golfo Persico quei 2 miliardi di euro che aveva intenzione di spendere nei progetti italiani.

La rinuncia di Shell Italia
I permessi di ricerca a cui rinuncia Shell Italia sono quelli per cui aveva presentato il 23 novembre 2009 le due istanze d 73 F.R-.SH e d 74 F.R-.SH, che interessano il golfo di Taranto. Si tratta di aree di mare al largo di tre regioni, Calabria, Basilicata e Puglia per le quali la legge di Stabilità e i conseguenti decreti del ministero dello Sviluppo economico, hanno imposto nuove perimetrazioni.

Le istanze originarie riguardavano un’area di 730 chilometri quadrati (diventati poco più di 609 secondo l’ultimo Bollettino Idrocarburi) più al largo e uno specchio d’acqua di 620 chilometri più vicino alla costa (ridotti a 153 in seguito a due diverse riperimetrazioni). Quindi si è passati da 1350 a 762, con una differenza di circa 588 chilometri quadrati per quello che era un unico grande progetto. “La prima domanda, la d 74 F.R-.SH interessava una zona marina a 6 miglia dalla costa e a 1,6 dalla ‘Secca di Amendolara’, sito di importanza comunitaria” racconta a ilfattoquotidiano.it Rosella Cerra del Coordinamento nazionale No-Triv. Un limite che si è poi spostato a 2,6 miglia dalla secca. Proprio poco dopo la presentazione delle istanze della Shell, il Governo Berlusconi bloccò i progetti entro le 12 miglia dalla costa. L’esecutivo guidato da Mario Monti lasciò invece uno spiraglio, salvando le procedure già avviate. La recente reintroduzione del limite delle 12 miglia ha portato a una nuova riduzione delle aree in cui è consentito cercare idrocarburi e, stavolta, la Shell ha deciso di gettare la spugna.

Nessuna strategia, nessuna sicurezza
Secondo Rosella Cerra, così come già accaduto per la Petroceltic alle Tremiti, la Shell potrebbe quindi essere stata scoraggiata anche dall’incertezza generale della strategia italiana nel settore della ricerca e della produzione di idrocarburi. “Sono diversi i cambiamenti normativi subentrati dal 2009 ad oggi – ricorda – e che hanno portato anche a cambiamenti sostanziali rispetto ai progetti presentati. Poi c’è la questione del referendum, un altro punto interrogativo per le multinazionali”. Proprio la Shell è stata al centro di una serie di decisioni che andavano prima in una direzione e poi in quella diametralmente opposta. Per i progetti ora abbandonati, iI 13 ottobre scorso aveva ottenuto il parere favorevole dal ministero dell’Ambiente. In netto contrasto con quanto chiedevano le regioni interessate. “Poi c’è stata la levata di scudi delle dieci Regioni promotrici del referendum che ha costretto il Governo – ricorda a ilfattoquotidiano.it  il costituzionalista Enzo Di Salvatore – a rimettere quel paletto delle 12 miglia, con l’unico obiettivo di evitare il voto popolare”. Una stangata per la Shell che si è vista menomare il progetto iniziale. E c’è il nodo referendum. Che si farà: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il decreto che indice la consultazione per il 17 aprile. “Non dimentichiamo, però, che non manca molto alla decisione della Consulta su altri due quesiti – ricorda Di Salvatore – quelli sulla durata dei permessi e sul piano delle aree. Una decisione che potrebbe cambiare le carte in tavola”. Per ora gli ambientalisti incassano l’ennesimo abbandono da parte dei petrolieri.

Le mire di Shell
E se i cambiamenti di rotta italiani fanno venire mal di testa anche alle multinazionali, altrove la situazione è ben diversa. Come diversa è la disponibilità di oro nero. La Shell, infatti, potrebbe avere intenzione di investire in Medio Oriente. Per la precisione in Iran, dove il potenziale è enorme. Prima della rivoluzione islamica, alla fine degli anni Settanta il Paese estraeva 6 milioni di barili al giorno. Nel 2015, dopo la guerra con l’Iraq, le sanzioni e l’embargo, la produzione è arrivata a 1,4 milioni di barili. Il governo di Teheran punta a recuperare terreno aumentando le forniture di circa 1 milione di barili al giorno nel prossimo anno. Per le multinazionali, tutta un’altra storia.