Lo spettro della mobilità si agita su almeno 100mila dipendenti delle società partecipate dalle amministrazioni pubbliche. “E’ una replica del processo di mobilità delle Province, che già non sta funzionando – spiega Federico Bozzanca, segretario nazionale Fp Cgil – E in questo caso, il rischio è ancora più grave e problematico”. Al centro del dibattito, stanno gli ultimi decreti partoriti dalla riforma della pubblica amministrazione. Uno di questi prevede il taglio delle società partecipate: l’obiettivo dichiarato del governo è passare da 8mila a mille. I sindacati apprezzano l’intenzione di razionalizzare, ma allo stesso tempo sono preoccupati dall’impatto occupazionale di questa operazione. Migliaia di dipendenti, infatti, rischiano di trovarsi senza un datore di lavoro e, di conseguenza, invischiati in un processo di mobilità dai contorni ancora tutti da definire.

Nel dettaglio, il decreto prevede che le amministrazioni possano avere partecipazioni solo in società, in forma di spa e srl, che producono beni e servizi “strettamente necessari per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali“. Tutte quelle che non rientrano in questi casi saranno sottoposte a “razionalizzazione, fusione o soppressione, anche mediante messa in liquidazione o cessione”. Secondo i dati Istat, le società partecipate senza la forma di spa o srl, che dovranno essere alienate dalla riforma, contano 94mila lavoratori. A questi vanno aggiunti quanti lavorano per le mini-partecipate: in totale si arriva a circa 100mila persone.

Per gestire questo personale, il decreto prevede che entro sei mesi le società a controllo pubblico dovranno fare un censimento, o meglio “una ricognizione del personale in servizio per individuare eventuali eccedenze”. In altre parole, esuberi. L’elenco sarà inviato al ministero della Funzione pubblica e, nel triennio 2016-18, il pubblico impiego dovrà assumere attingendo a questa lista. Se un ente avesse bisogno di un profilo assente dagli elenchi, potrà cercarlo altrove, ma solo dopo il nulla osta del ministero. Un meccanismo che ricorda un’altra esperienza recente. “Il decreto prevede un portale della mobilità, una replica di quanto è successo per le Province – afferma Bozzanca – Il problema è che in questo caso non sta funzionando. Nel portale sono stati caricati i lavoratori in sovrannumero, ma mancano le offerte di lavoro. E’ un sistema monco, c’è solo la domanda e non l’offerta”. Anche Giovanni Torluccio, segretario generale Uil Fpl, non nasconde l’apprensione del sindacato: “La nostra preoccupazione è fortissima. Si rischia una questione sociale di enormi dimensioni: ricollocare oltre 100mila persone è un problema grave”. Più sfumata, ma altrettanto preoccupata, la posizione di Luigi Sbarra, segretario confederale Cisl: “Bisogna stare molto attenti che non si determinino perdite occupazionali. Abbiamo già allertato le nostre strutture locali per capire se ci può essere del personale a rischio che dobbiamo proteggere”.

Tornando ai contenuti del decreto, un caso a parte è quello di quanti prima lavoravano per un ente pubblico e poi sono passati alla partecipata alienata dalla riforma. In questa eventualità, l’amministrazione avrà l’obbligo di riassumere il dipendente. Invece, i colleghi che non provengono dall’ente pubblico non potranno essere assorbiti: non si può accedere a un’amministrazione senza avere prima superato un concorso. Inoltre, si prevede che al personale delle partecipate si applichino le leggi in materia di ammortizzatori sociali per il settore privato: anche questi lavoratori, se in possesso dei requisiti, avranno diritto a cassa integrazione, mobilità, disoccupazione.

Ma questo non basta a tranquillizzare i sindacati. Al di là della questione esuberi, la Cgil vede anche gravi ostacoli alla stessa applicazione del decreto. “Il testo è difficilmente attuabile per una serie di complicazioni di carattere giuridico – spiega Bozzanca – Per esempio, il criterio di salvaguardare le partecipate che producono servizi di interesse generale è così generico che la questione finirà davanti alla Corte dei conti. Infine, manca un governo dei processi di riordino. Come da anni è possibile fare le unioni comunali, ma non si riescono a fare, così sarà difficile attuare il riassetto delle partecipate lasciandolo all’autonomia delle singole amministrazioni. Si dovrebbe invece affidare il governo del processo alle Regioni, per esempio”. Insomma, le perplessità non mancano. Con una conclusione: “Lo slogan di passare da 8mila a mille partecipate rischia di essere pura demagogia. E di portare con sé ricadute occupazionali pesantissime”.

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