Per chi mastica qualche nozione di macroeconomia, e per molti anni ci ha pure guadagnato due soldi, è adesso davvero esilarante leggere le articolesse di fior di esperti, opinionisti e aruspici vari sul destino di questa ennesima turbolenza finanziaria. C’era infatti chi, solo qualche anno fa, pronosticava per il 2015 il petrolio a quasi 400 dollari al barile. E c’era chi, come ho minuziosamente documentato per anni nella grottesca rubrica Uova di gufo (introducendo le doti apotropaiche di questo volatile ben prima che diventasse l’incubo archetipico del nostro premier), si è ostinato contro ogni evidenza a iniettare nel tessuto socioeconomico italiano dosi di ottimismo inferiori soltanto alle dosi di liquidità travasate nel sistema bancario da Mario Draghi. All’indomani dell’auspicabilmente prossima crisi sistemica, ci si ricorderà di questa parabola governativa al lampredotto, come di un gigantesco straccio imbevuto di cloroformio, premuto sulla faccia degli italiani.

E adesso? Che cosa ci racconteranno adesso questi impenitenti strilloni del piuzerovirgola? Cosa s’inventeranno, pur di non dedicare neanche uno dei loro preziosissimi minuti a occuparsi seriamente di una diversa strategia d’uscita, che si concentri davvero sul destino delle persone, e non su quello dei cda bancari? Perché si guardano bene dal dircelo, ma la verità è che ci troviamo nuovamente in riva al mare, con i piedi ben affondati nella sabbia fradicia del bagnasciuga, e sentiamo improvvisamente le dita scoprirsi: la sabbia scorre via, trascinata dall’acqua che fluisce verso il mare aperto, attirata da qualcosa in lontananza.

Il modello di crescita economica occidentale sta finalmente denunciando al mondo intero la sua insostenibilità sistemica. Le spropositate sperequazioni tra (a) l’economia finanziaria e il suo controvalore reale, (b) i bisogni effimeri indotti dal marketing e quelli effettivi, (c) la ricchezza dell’1% più ricco e quella del 99% più povero, (d) la quota di lavoratori assorbiti dai servizi (70%) e dall’agricoltura (4%), sono quattro fenomeni con lo stesso peccato originale, che parlano lo stesso linguaggio e che gridano al mondo intero come occorra immediatamente un drastico e capillare cambiamento di rotta. Se non lo farà da solo il genere umano, ci penserà l’ecosistema. Con i metodi – solitamente perentori – che gli sono abituali e che, nella quasi totale indifferenza mainstream, già ci sta mostrando: cambiamenti climatici, fenomeni migratori, derive insurrezionali e terroristiche. Con buona pace dei risolini supponenti dei templari della crescita ad ogni costo e di chi si ostina a vedere nell’attuale modello di sviluppo l’unico destino possibile per la nostra malconcia civiltà. La risposta possibile è una sola: dobbiamo fermarci.

Queste considerazioni dividono, lo so bene: stridendo con i gerani che per decenni abbiamo appeso alle nostre prigioni dorate, ci mettono di fronte alle nostre responsabilità. Ma occorre farle, almeno per provare a svegliare qualcuno da questa ipnosi consumistica collettiva: +16% di immatricolazioni nel 2015, in un paese come l’Italia che, “stremato dalla crisi”, è anche il secondo in Europa per numero di veicoli ogni mille abitanti, è un insulto al futuro.

Le alternative, ovviamente derise da chi (pur con un fazzolettone scout al collo) ritiene indispensabile dotarsi in questo frangente di un aereo presidenziale per i suoi spostamenti, esistono e vengono praticate da sempre più numerosi gruppi e organizzazioni: intere fasce di società civile che, animate da una saggezza che nelle cancellerie europee si sognano, da anni si sono consapevolmente e operativamente sottratte al teologùmeno capitalista. Agricoltura biologica, programmi di ecovicinato, orticultura urbana, circuiti monetari alternativi, finanza etica, autoproduzioni, mobilità sostenibile, economia di condivisione (quella vera, che parte dal nostro autentico senso di reciprocità, non quella che si liquida con un paio di clic del mouse su qualche piattaforma web di scambio casa), ripristino della cultura ellenica del “limite”: sono solo alcune delle soluzioni che, oltre ad accompagnarsi spesso al rifiuto della politica di palazzo e all’astensionismo elettorale, si ispirano ai criteri di mutualità, di pienezza relazionale e, soprattutto, di recupero di quel senso di partecipazione comunitaria al nostro comune destino, che la sbornia neoliberista del Dopoguerra ci ha fatto dimenticare. Soluzioni a cui, in un modo o nell’altro, dovremo tornare tutti quanti. Se, come sostiene Rifkin, il capitalismo è destinato a comprimersi in nicchie sempre più ristrette, per il resto della popolazione è preconizzabile un progressivo ritorno al cosiddetto commons-collaborativo. Si tratta solo di capire, a questo punto, se lo faremo per volere nostro o per quello del Nasdaq.

Perché fortunatamente il giochino si sta di nuovo rompendo, lo abbiamo detto. Speriamo che questa volta gli effetti siano roboanti, sistemici e risolutivi. Solo così, infatti, potremo essere costretti a inventarci qualcosa di diverso. Perché è vero che solo i cambiamenti che si levano dal basso sono duraturi, ma è altrettanto vero che sono anche i più lenti. E il tempo che abbiamo a disposizione si sta purtroppo esaurendo: ce lo ricordano le primule sbocciate a febbraio. E a chi immancabilmente ci accusa di catastrofismo lo ricorda il Baltic Dry Index, che dal 1985 quantifica la mole di spedizioni sui cargo mercantili di tutto il mondo: si tratta del miglior indicatore congiunturale per misurare la vivacità degli scambi commerciali fisici. Domanda e offerta planetarie, insomma. Dateci un occhio: da oltre due mesi, ogni giorno inanella un nuovo minimo storico. Siamo definitivamente entrati nell’era della post-crescita, una delicatissima fase in cui adesso, nonostante le rassicurazioni dei soliti tromboni sul livello di patrimonializzazione del sistema bancario, una piccola corsetta agli sportelli – anche leggera leggera, senza nemmeno farsi venire il fiatone – sarebbe sufficiente per far crollare l’intero castello di carte.

Come al solito, preferiremo però aspettare l’ennesimo uomo della provvidenza. Si chiami Berlusconi, Monti, Renzi o Grillo. Perché quando capiremo che a scegliere avremmo potuto essere noi, forse sarà stato troppo tardi.

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