Da tempo il governo parla della possibilità di anticipare l’uscita dal lavoro in cambio di una riduzione della pensione. Creando così grandi aspettative, soprattutto tra le donne, per le quali dal 2016 si alza l’età di pensionamento. Ma nella legge di stabilità c’è solo uno strano part time.

di Pietro Garibaldi* (lavoce.info)

Tanto rumore per nulla?

Per tutta l’estate il governo ha parlato di flessibilità e della possibilità di anticipare l’uscita dal lavoro di qualche anno in cambio di una riduzione della pensione. Si sono così create grandi aspettative per le lavoratrici donne del settore privato che, dal 2016, vedranno innalzata l’età pensionabile fino ai 66 anni e 4 mesi. Il presidente del Consiglio più volte ha parlato esplicitamente di dare alle nonne “la possibilità di godersi il nipotino”.

Tanto rumore per nulla? Forse sì. Alla fine il governo ha partorito il più classico dei topolini. Un provvedimento ad hoc sul part time dei lavoratori vicini alla pensione che – dalle prime impressioni – lascia molto perplessi. Dal 2016 i lavoratori a tempo indeterminato del settore privato che matureranno i requisiti previdenziali entro il 2018 potranno chiedere ai datori di lavoro di usufruire del part time, ma non andranno in pensione e resteranno a tutti gli effetti lavoratori attivi.
I potenziali lavoratori interessanti vogliono innanzitutto sapere cosa succederà al loro reddito, dal momento che la pensione non sarà ancora percepita fino al conseguimento dei requisiti nel 2018. Il meccanismo proposto prevede che per la parte sulle ore non lavorate, l’impresa verserà in busta paga mensilmente al lavoratore i contributi che avrebbe – altrimenti – versato allo Stato. Al tempo stesso, lo Stato si impegna a considerare – ai fini del computo della pensione futura – gli anni di part time come pienamente lavorati. Con un calcolo molto approssimativo, possiamo dire che una persona che avrebbe guadagnato mille euro lavorando full time, riceverà circa settecentocinquanta euro passando a un part time al cinquanta per cento. Per il lavoratore potrebbe essere conveniente.

I tre problemi di uno strano part-time

Vi sono almeno tre problemi con questa impostazione.
Innanzitutto il provvedimento aumenta il costo del lavoro per ora lavorata. Le imprese dovranno versare gli stessi contributi che avrebbero versato a politiche invariate, ma disporranno del lavorate per un numero ridotto di ore. Questo significa un aumento del costo del lavoro che – come ogni studente di economia del lavoro sa bene – ne riduce la domanda. Se il meccanismo proposto dovrà avere il consenso del datore di lavoro, rischia di essere inefficace, in quanto è difficile che le imprese accettino volontariamente un aumento del costo orario di lavoro e una perdita di competitività.

Secondo, con il provvedimento si crea un cuneo tra i contributi versati e la pensione effettivamente percepita. Il lavoratore dal 2018 riceverà una pensione come se avesse lavorato full time. Uno dei caposaldi del nostro sistema previdenziale è il legame tra contributi versati e prestazioni future. Gli aggiustamenti ad hoc distorcono questo semplice meccanismo in modo arbitrario. Inoltre, non è chiaro quante risorse siano state stanziate per il provvedimento. Si parla di 100 milioni di euro. Ma cosa succederà se i 100 milioni finiscono dopo pochi mesi? Il “rubinetto” è sempre un meccanismo pericoloso per gestire i provvedimenti di finanzia pubblica, poiché crea un corsa all’accaparramento per arrivare prima che i soldi finiscano.

Terzo, il provvedimento pare riguardare soltanto il settore privato. La necessità di ringiovanire la forza lavoro sembra essere principalmente un problema del settore pubblico, dove i blocchi delle assunzioni da cinque o sei anni stanno causando un invecchiamento drammatico della forza lavoro della pubblica amministrazione. Probabilmente, il governo ha sentito di avere le mani legate dopo gli annunci fatti a fine estate sulla flessibilità in uscita. Ma un intervento serio su questo tema significa dare la possibilità di andare in pensione prima di aver raggiunto i requisiti attraverso una riduzione dell’assegno pensionistico percepito. In termini attuariali, questi interventi non comporterebbero oneri per lo Stato. Anche se nel breve periodo diminuiscono i contributi versati e aumenta la spesa pensionistica, gli aggravi di breve periodo si recuperano attuarialmente con le minori pensioni erogate durante il resto della vita del lavoratore.
I ministri Poletti e Padoan hanno avuto poco coraggio e alla fine il governo ha partorito il topolino del part-time. Vedremo se nel 2016 riuscirà a fare meglio, anche se dopo tutte le aspettative create ai pensionandi, questo provvedimento lascerà probabilmente deluse le future pensionate nonne.

Professore ordinario di Economia Politica presso l’Università di Torino, è direttore del Collegio Carlo Alberto e responsabile degli studi sul lavoro della Fondazione Debenedetti. E’ consigliere di sorveglianza e membro del comitato di controllo di Intesa SanPaolo. E’ stato Consigliere economico del Ministro dell’Economia e della Finanze nel 2004 e 2005, e consulente in materia di lavoro per il Dipartimento del Tesoro. Ha conseguito il Ph.D. in Economia presso la London School of Economics nel 1996. Dal 1996 al 1999 ha lavorato come economista nel dipartimento di ricerca del Fondo Monetario Internazionale, ed è stato professore associato presso l’Università Bocconi dal 2000 al 2004. Redattore de lavoce.info.

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