Il quadro attuale della tassazione sui carburanti per uso stradale è peculiare: abbiamo già una pressione fiscale tra le più elevate del mondo (circa due terzi del prezzo alla pompa sono tasse). Ma non solo: una recente meta-ricerca mondiale (cioè una ricerca che riassume e discute i risultati delle maggiori ricerche internazionali sul tema), pubblicata di recente dal Fondo monetario internazionale, mette in luce che questa tassa internalizza nei Paesi europei ben di più dei costi ambientali generati dal settore stradale. Questo vuol dire, semplificando molto, che i poveri automobilisti, al contrario di altri settori inquinanti che sono addirittura sussidiati, pagano più di quanto gli toccherebbe dal punto di vista ambientale (i camion van quasi in pari). E il settore stradale è colpevole comunque di una minoranza delle esternalità ambientali, circa il 25 per cento del totale in Europa.

I dati dell’Istat ci dicono che è una tassa regressiva, che cioè colpisce in proporzione al reddito più i poveri che i ricchi. A conferma di questo dato, occorre ricordare che una ricerca del Censis pochi anni fa metteva in luce che in termini relativi usano di più l’auto gli operai, mentre impiegati e studenti usano di più i mezzi pubblici. Ora, se scattano le cosiddette “clausole di salvaguardia europee”, cioè se il governo ha bisogno di risorse perché non riesce ad attuare i tagli alla spesa pubblica concordati con Bruxelles, le tasse sulla benzina saliranno ancora di più, automaticamente.

Cosa potrebbe succedere? Ci sono due scenari possibili: il primo è quello osservato fino a prima della crisi economica del 2008, cioè che la domanda totale di carburanti scenda poco nonostante l’aumento dei prezzi (tecnicamente possiamo chiamarlo “ scenario a domanda rigida”). In questo caso i consumi di carburante, diminuiscono poco, gli automobilisti e i camionisti stanno peggio, ma lo Stato sta meglio, perché incassa molto di più. Però non ci sarebbero benefici ambientali, la distribuzione del reddito peggiorerebbe, e forse l’industria automobilistica ne soffrirebbe (fuga relativa di Sergio Marchionne & soci e non a torto: non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, vista anche la discutibile ideologia anti-automobilistica dominante). Ci sono tuttavia molti indizi che fanno ritenere questo scenario il meno probabile: il reddito degli italiani è diminuito e la gente è dunque più sensibile ai prezzi.

Il secondo scenario è più plausibile e prevede che la domanda di carburante sia diventata “elastica”, questo vuol dire che un ulteriore aumento determinerà un calo dei consumi. In parte perché viaggeranno meno persone e meno merci, in parte perché aumenterà l’uso dei trasporti pubblici. Per le merci l’esperienza insegna che l’impatto tende a essere più ridotto, in un sistema produttivo avanzato infatti mettere le merci sul treno, nonostante questo sia sussidiato, è difficilissimo. Diverso quando prevalgono produzioni “povere e pesanti”, come prodotti agricoli o minerari.

In questo scenario di “domanda elastica”, lo Stato potrebbe addirittura incassare di meno di prima, ma comunque si avrebbe una sensibile perdita di benessere collettivo: gli utenti starebbero peggio, ma al contrario del caso precedente, lo Stato guadagnerebbe davvero poco. Una perdita netta per la collettività: in termini tecnici si definisce, una perdita di “surplus sociale”, cioè una sorta di male economico assoluto.

E i benefici ambientali, comunque, sarebbero in parte erosi dai maggiori costi di fornire mezzi pubblici, che in Italia sono sussidiatissimi. Il resto rimarrebbe simile: danni all’industria automobilistica ed effetti sociali regressivi (cioè perdono di più i poveri dei ricchi).

Visto che comunque bisogna riequilibrare i conti pubblici, va ricordato che ci sarebbero alternative molto più efficaci ed efficienti. La prima è quella di tassare le attività economiche e i consumi che oggi generano quel 75 per cento dei costi ambientali, e che sono tassate meno del settore stradale, cioè la cui tassazione sarebbe sia più equa socialmente che più efficiente sul piano ambientale (il Nobel Paul Krugman suggerisce di istituire una tassa ambientale uguale per tutti i settori inquinanti, cioè una carbon tax). Ma come abbiamo detto, alcuni di questi settori sono addirittura sussidiati, come l’agricoltura. E in secondo luogo, si dovrebbero tagliare, proprio nei trasporti, spese molto rilevanti, di utilità assai dubbia e di scarsissimo impatto occupazionale, quali le “grandi opere” infrastrutturali, ricordando che sono in fase di avviamento cantieri a totale carico dello Stato (quelli delle opere ferroviarie) per 30 miliardi di euro di preventivo, e chissà quanti poi risulteranno essere a consuntivo.

Da il Fatto Quotidiano del 9 settembre 2015

Articolo Precedente

Gazprom, il gruppo russo esce dall’angolo offrendo più gas sul mercato Ue

next
Articolo Successivo

Tasse, la controproposta: “Via la Tasi solo per i redditi bassi, patrimoniale sui più ricchi”

next