Se Wikipedia non inganna, I Soprano (The Sopranos) li ha trasmessi Mediaset tra il 2001 e il 2007 o giù di lì. Ma di tutte quelle puntate che il palinsesto generalista si portava via non ci capitò di zapparne neppure una e, anche se sentivamo citazioni ammirate, non ci mettevamo a rincorrere una serie già iniziata, di cui avevamo ormai perso gli inizi, né mai ci saremmo precipitati da un venditore di dvd, ammesso che l’avessero.

Ma oggi i palinsesti non sono più il tutto scorre di un tempo e puoi immergerti, due e più volte, nello stesso fiume. Basta che paghi. E così, versando i nostri soldi alla Sky di squalo Murdoch, lasciamo che le puntate settimanali si accumulino per farcene il consumo compulsivo in una sola serata. Ne vale la pena.
L’ahimè scomparso James Gandolfini è Tony Soprano, un immigrato di seconda generazione (di famiglia irpina) che, come Al Pacino, figlio del Padrino, guida col dovuto scrupolo e la necessaria determinazione gli affari della famiglia mafiosa cui il padre, per primo, dette un lustro universalmente riconosciuto. Questa è la parte che gli è capitata nella vita, l’ufficio è il suo locale di lap dance, nel suo territorio si derubano solo i tir che dice lui, e sempre con la connivenza dell’autista. Tutto fila e quando s’ingarbuglia, coltello e pistola sono pronti a sbrogliare la matassa.

Questo è quanto sul piano delle pubbliche responsabilità. Nel privato per contro le rogne sono tante che neanche il Giobbe o il Silvio dei peggiori momenti ne pativano di peggiori. Moglie e figlia si vergognano del suo mestiere. L’unico che lo capirebbe è il figlio minore, ma, ahimè, non è granché sveglio (è il problema di molti figli di boss, se ricordiamo Gomorra la serie). Ultima, ma non meno importante, la Madre, tiranna e anaffettiva, che lo fa sentire permanentemente inadeguato come figlio, che non può più vivere da sola, ma che repelle dalla convivenza con badanti e con chicchessia, a partire dalla nuora. Conclusione: gli attacchi di panico. E l’amante di consolazione, ma siccome questo rimedio notoriamente cura i sintomi, ma non le cause, ecco che anche il boss finisce dallo, anzi dalla, psicanalista.

E così, lo spettatore si identifica col protagonista attraverso due varchi: le vicende private, che sono di quelle che capitano proprio a tutti; e la attività lavorativa dove, anche qui come tutti, sei costretto a una grande fatica per tenerti i clienti, per non avere sgambetti in carriera, per farti pagare. Come deve essere fatto, direbbe Machiavelli, senza l’ingombro di dilemmi etici e sensi di colpa. Ed è questo rigore anti-etico della sceneggiatura che la rende sottilmente comica, come fosse la caricatura di un soggetto, che ne sottolinea le caratteristiche più spiccate e autentiche.
Il soggetto, ovviamente, siamo noi, anche se potrebbe non capitarci mai di rabbuffare qualcuno trafiggendolo in petto con la sparapunti. Che non la trovi mai quando serve.

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