apple-iphone-smartphone-fruitsSi chiama Kevin Murphy e potrebbe essere il vostro nuovo dietologo, nonostante non sia medico né nutrizionista professionale. Il tizio, sconosciuto ai più, in realtà è un ricercatore matematico che lavora in Google e che ha trascorso l’ultima settimana di maggio a Boston per partecipare al Rework Deep Learning Summit.

Al congresso Murphy ha presentato il progetto che dirige, lasciando tutti – è il caso di dirlo – “a bocca aperta”. Gli studi del suo team hanno portato ad approntare un programma, basato su algoritmi molto sofisticati, che permette di analizzare una semplice foto di cibo e di stimare quante calorie è in grado di apportare quel piatto.

L’incredibile soluzione si chiama Im2Calories, appellativo che “vivisezionato” mira a scoraggiare chi sta per addentare la pietanza. Il nome attribuito al software si può tradurre non letteralmente “ho troppe calorie”, dove il “troppo” è il “too” traslitterato con il numero 2 (two).

Come funziona questo dissuasore alimentare? Il dispositivo su cui il programma è installato esamina un’immagine e vi riconosce – ad esempio – salsicce, maionese, patatine fritte, fette di pane. Pur non disponendo di precise unità di misura, il sistema “conta” quel che vede e stima per ciascun elemento una dimensione presumibile prendendo a riferimento il piatto o altri oggetti ripresi dalla fotografia. La capacità di riconoscere gli oggetti raffigurati consente di computare il numero di calorie destinate ad essere ingurgitate dall’interessato.

Im2Calories non ha bisogno di foto professionali ad alta risoluzione. Anche un semplice scatto veicolato attraverso i social media o un messaggio WhatsApp è idoneo per avviare tutte le valutazioni del caso.

Kevin Murphy nel corso della sua dissertazione al congresso ha tenuto a sottolineare che la procedura è “semiautomatica”, ovvero consente a chi se ne serve di aiutare il programma a correggere rilevazioni imperfette ed a inserire ulteriori elementi di valutazione per una più corretta stima dell’apporto calorico.

Se molti esultano a questa soluzione, immaginandola come una sorta di grimaldello per scassinare il problema dell’obesità che affligge gli Stati Uniti, tanti altri guardano il progetto con discreto timore. Google non avrà in mano soltanto i dati relativi alle nostre ricerche online, ma potrà disporre in modo puntuale di ogni informazione “concreta” che riguarda la nostra alimentazione e avrà maniera di servirsene per i più disparati obiettivi commerciali.

La Rete non si limita a spiare orientamenti e passioni sessuali, opinioni politiche, mode e tendenze, ma è pronta a fagocitare ogni dato che possa consentire di schedare l’utenza. La missione è tutt’altro che impossibile, visto e considerato che il conteggio delle calorie e l’igiene alimentare sono diventati rapidamente un “must” per chi colleziona App sul proprio smartphone.

Il cibo è considerato il punto forte di tanti social network e lo dimostra il sempre crescente numero di account Instagram dedicati alla fotografia di meraviglie culinarie. Qualcuno a questo proposito parla addirittura di “food porn”, una sorta di pornografia gastronomica che a quanto pare crea dipendenza e – non bastasse – è persino pericolosamente contagiosa.

Alzi la mano chi non ha mai inoltrato la foto di un succulento piatto per “far rosicare” gli amici golosi? Mi raccomando, alzare la mano avendo cura di poggiare il telefonino fuori dal piatto appena immortalato…

@Umberto_Rapetto

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