Sei ragazzini che si esercitavano al tiro a segno con un fucile a canne mozze calibro 12 caricato a pallettoni. Avevano tutti tra gli 11 e i 13 anni e si erano dati appuntamento in una strada di campagna, vicino al torrente, proprio nel momento in cui i carabinieri stavano andando a notificare al sindaco di San Luca il decreto di sospensione del Consiglio comunale. Era il 2000 ma quella scena, ancora oggi, descrive appieno lo spaccato di quello che è passato alla storia come il “paesino dei sequestri”, negli anni ottanta, e come il campo di battaglia di una delle più sanguinose faide della Locride, iniziata negli anni novanta e culminata nel 2007 con la strage di Duisburg, in Germania, dove nei parcheggi del ristorante “Da Bruno” morirono ammazzati sei ragazzi ritenuti vicini alla cosca Pelle-Vottari contrapposta a quella dei Nirta-Strangio. Fu la risposta all’omicidio di Maria Strangio, uccisa il giorno di Natale del 2006 davanti alla chiesa in un agguato contro il marito, il boss Giovanni Luca Nirta, che riuscì a sfuggire ai sicari.

Sembrano passati molti anni. L’operazione “Fehida” ha decapitato le cosche ma non la ‘ndrangheta che, a queste latitudini, si rigenera come una pianta a cui vengono tagliati i rami secchi ma cresce più forte di prima. Con le sue regole e le sue abitudini. E quando non spara è quello il momento in cui è più forte, in cui condiziona le amministrazioni comunali, in cui decide il sindaco, gli assessori e anche i tecnici degli uffici comunali.

Passano gli anni e le considerazioni fatte dal procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho (secondo cui 18 mesi di commissariamento sono pochi per i Comuni ad alta densità mafiosa), sembrano essere l’unica soluzione per posti come San Luca dove la politica ha abdicato alla ‘ndrangheta. Al resto ci pensa la rassegnazione della gente che non crede più nella politica, che incontra i futuri consiglieri regionali solo quando hanno bisogno di voti. È stato così per il centrodestra in passato. Lo è ancora di più oggi per il centrosinistra. La coalizione guidata dal governatore Mario Oliverio, infatti, alle ultime regionali di novembre ha incassato quasi il 60% delle preferenze a San Luca per poi “dimenticarsi” di presentare i suoi candidati alle amministrative e dare un’alternativa alla gestione commissariale del Comune.

È anche per questo che il 31 maggio ha vinto di nuovo la ‘ndrangheta. Una sola lista civica presentata che, però, non ha raggiunto il quorum. Elezioni nulle e a San Luca restano i prefetti, nominati dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiose nel 2013, pochi mesi prima dell’arresto dell’ex sindaco Sebastiano Giorgi, condannato a sei anni di carcere perché avrebbe favorito le cosche.
Con 1485 voti, la lista “Liberi di ricominciare” ha raggiunto il 43,09%, al di sotto della soglia minima per rendere valide le elezioni. Non ce l’ha fatta, quindi, Giuseppe Trimboli che già due anni fa voleva candidarsi ma gli fu impedito a tre giorni dalla tornata elettorale quando il Comune fu travolto dal decreto di scioglimento da cui è emersa “la stretta ed intricata rete di parentele, affinità, frequentazioni che vincola la maggior parte degli amministratori a soggetti inseriti nelle famiglie della ‘ndrangheta”.

Rete che, stando a quanto è scritto nel decreto, “ha costituito lo strumento principale attraverso il quale la criminalità organizzata si è inserita nella struttura dell’amministrazione comunale”.
L’astensione, quindi, ha fatto sfumare la possibilità di eleggere un sindaco. All’appello sono mancate solamente 225 schede per ritornare alla politica con Giuseppe Trimboli che, nel paesino aspromontano, gestisce un’edicola e, fino a pochi anni fa, anche la squadra di calcio del San Luca. Proprio la sua veste di dirigente sportivo, nel novembre 2009, lo aveva fatto salire agli onori della cronaca quando fu destinatario di un “Daspo” da parte dell’allora questore di Reggio Calabria Carmelo Casabona.

Per un anno, infatti, al candidato della lista “Liberi di ricominciare” è stato impedito l’ingresso allo stadio perché in occasione della partita “San Luca-Bianco”, i calciatori della squadra di casa hanno indossato una fascia nera al braccio, in segno di lutto per la morte dell’anziano boss Antonio Pelle, detto “Gambazza”, capocrimine e mammasantissima della Locride, patriarca indiscusso della ‘ndrangheta, catturato nel giugno 2009 dal Ros dopo nove anni di latitanza. Era ricoverato all’ospedale di Polistena per curare un’ernia strozzata.

“È tutto finito, è tutto finito”. È la frase che il capocosca disse al colonnello Valerio Giardina e al maggiore Gerardo Lardieri che lo arrestarono cinque mesi prima che gli venisse un infarto. Il figlio Giuseppe prese il suo posto ma oggi è in carcere da diversi anni. La sua abitazione era diventata un luogo di pellegrinaggio dei politici che, nel 2010, volevano candidarsi alla Regione Calabria e che, da tutta la provincia di Reggio, si presentavano al suo cospetto con valigette piene di soldi per comprare i voti delle varie famiglie mafiose.

È questa l’immagine plastica di una paesino come San Luca. Il mancato raggiungimento del quorum e l’assenza dei partiti alle ultime comunali del 31 maggio sono l’ultimo capitolo di una storia dove la politica non ha mai recitato il ruolo di protagonista. Un terreno minato che i partiti preferiscono non calpestare lasciando l’amministrazione comunale in mano ai commissari prefettizi. Ma soprattutto abdicando alla ‘ndrangheta.

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