Arriva come un fulmine a ciel sereno. Il 29 maggio, giornata convulsa per la politica italiana (sono le ultime ore d’una campagna per le amministrative affaticata dal dibattito nazionale sugli impresentabili, in una Calabria dove Platì non va al voto), Elisabetta Tripodi, sindaco antimafia di Rosarno, impegno civile per i beni comuni, premi nazionali alle spalle per bella amministrazione, inaspettatamente viene mandata a casa. A caldo, in una misuratissima dichiarazione, dirà che non ci sono motivazioni politiche a decretare la sua caduta.
Succede nella Piana di Gioia Tauro, a Rosarno, la città di Peppe Valarioti e di Peppino Lavorato, il sindaco della Primavera rosarnese, del primo comune in Italia a costituirsi parte civile contro le organizzazioni criminali. Rosarno, dove fare il sindaco non è una questione semantica ed Elisabetta Tripodi è una presenza urticante: o molto amata o molto odiata (come spesso accade in politica), anche per quella sua sovraesposizione mediatica.

Si dimettono in 11 consiglieri, 10 di minoranza, una di maggioranza, eletta in una lista civica. La Tripodi parlerà di malumori legati ad un parere di difformità edilizia emesso dal Comune, destinatario un congiunto (il marito della dimissionaria). Sarà un caso? Tanto basta per raccontare di quando il privato si confonde malamente con il pubblico, di quando le piccole beghe individuali e una mischia di misoginia, acredine e invidia locale prevalgono sul benessere collettivo. In epoca non sospetta la signora che ha rassegnato le dimissioni rivendicava un assessorato tinto in quota rosa. E ha ragione Elisabetta quando ci dice che: “È brutto che questa storia venga dalle donne, anche se qui i veri registi sono gli uomini e le donne sono state soltanto utilizzate”.

Avvocato e un passato da segretario comunale (che ti dà la giusta competenza per poter esercitare il ruolo di primo cittadino), Elisabetta Tripodi in questi anni ha vissuto blindata, sotto scorta e pesantissime privazioni delle libertà individuali per essersi opposta, in un luogo difficile, allo strapotere dei Pesce e dei Bellocco, alla ‘ndrangheta: l’organizzazione criminale più potente al mondo. Di minacce ne aveva subite tante, non ultima nel 2011 la lettera che Rocco Pesce, capo dell’omonima cosca, le aveva fatto recapitare raccomandata con tanto di timbro dal carcere di Opera di Milano (!), lamentando, lui, che il comune si fosse costituito parte civile contro la sua famiglia e che si fosse battuto per sgombero e relativa confisca di un immobile abitato dai suoi familiari.

Coraggiosa, era stata eletta nel 2010 sindaco di Rosarno, antica colonia greca di Medma, oggi porta d’accesso al porto di Gioia Tauro, il più grande scalo da transhipement del Mediterraneo, da dove passa non solo narcotraffico: traffico illegale di rifiuti, armi, contraffatto, insomma l’illegalità globale, un Porto Franco su cui a volerne sapere di più basta leggere l’omonimo racconto di Francesco Forgione. E se provi a chiederle, oggi, se la ‘ndrangheta c’entra in questa vicenda ti risponde “apparentemente no”. Ecco, appunto, apparentemente. Perché di certo la ‘ndrangheta da questa misera storia se ne avvantaggerà. È una sua vittoria simbolica. Come riprendersi il maltolto. Non a caso i vertici regionali del Pd parleranno di “agguato”.

Era quasi alla fine del mandato, Elisabetta Tripodi. Ha governato quattro anni e mezzo, di cui gli ultimi due fatti d’un equilibrio politico assai precario. Eppure in questa vicenda amministrativa ultimamente peggiorata ci sono state opere pubbliche per 30 milioni di euro. Una piscina, quattro campi d’atletica, strutture sportive che Rosarno non ha mai avuto, un anfiteatro, un cinema, un cineteatro, la ristrutturazione delle scuole, l’isola ecologica, la raccolta differenziata, le politiche di cura per i migranti. Per non dire delle continue battaglie di legalità. Ma tutto questo non è bastato. E ora ci si avvia verso un nuovo commissariamento, che non è mai una vicenda felice per una città/comunità, semmai ha sempre un che di traumatico.

È assai serena Elisabetta Tripodi oggi, quasi affrancata. “Mi sono liberata di un peso” – dice. “Il consiglio comunale era diventato un Vietnam e se non mi sono dimessa prima è per quel senso delle istituzioni che ho. Quello che ho fatto – aggiunge – l’ho fatto per la mia città, mi sono prestata, non venivo dalla politica, e lo rifarei ancora. A testa alta posso dire che sono state gettate le basi del cambiamento, spero soltanto che non si torni indietro”. E se provi a chiederle se pensa di ricandidarsi ti dice immediatamente no. Troppe amarezze, troppi tradimenti. Quello che è certo è che il suo impegno in politica continuerà.

Resta un dubbio. Se realmente sia stato fatto tutto il necessario per tutelare una buona amministrazione che aveva impresso segni di cambiamento. Se non si poteva fare di più. Se non ci sia, inconsapevole, una responsabilità collettiva per aver lasciato in quasi solitudine un presidio che forse andava preservato meglio. Già, perché questa, a conti fatti, è una sconfitta non d’un singolo, ma collettiva, d’una comunità: quella di tanta Calabria onesta fatta di senso civico, virtù pubbliche, gesti di libertà e di resilienza che troppo spesso, quando prova ad emergere, viene mortificata.

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