Il cancro non è solo una malattia, è anche un disagio economico e sociale. La riabilitazione oncologica post trattamento (chirurgico, chemioterapico o radioterapico) continua a essere una spesa a carico delle famiglie. Il Sistema nazionale sanitario in questo caso non garantisce un intervento specifico. “È un’ingiustizia, chiediamo che la riabilitazione rientri nei Lea (Livelli essenziali di assistenza, ndr)”: denunciano le associazioni dei pazienti, coordinate dalla Favo (la Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia), che oggi in Senato in occasione della Giornata nazionale del malato oncologico hanno presentato il VII Rapporto sulla condizione assistenziale dei cittadini colpiti dal cancro.

“Il tumore determina bisogni riabilitativi specifici, non assimilabili a quelli di altre patologie – sottolinea Elisabetta Iannelli, avvocato e segretario Favo -. Gli esiti dei trattamenti possono causare difficoltà non solo fisiche ma anche cognitive, psicologiche, nutrizionali, sessuali, sociali e lavorative. Nessuno ci ascolta! Per il Patto della salute, approvato lo scorso luglio, né il ministero della Salute, né le Regioni ci hanno interpellato per un parere, è grave”. Secondo Carmine Pinto, presidente nazionale Aiom (Associazione italiana di oncologia medica) è urgente “un programma interdisciplinare di cura della persona guarita” da adottare a livello nazionale. Il libretto “La vita dopo il cancro”, curato da Favo e Aiom, potrebbe essere il punto di partenza.

Il numero di italiani con una diagnosi di tumore è in crescita: erano quasi 2,6 milioni nel 2010, sono tre milioni oggi, cioè il 17 per cento in più. Una persona su quattro guarisce. Tra le donne il tumore alla mammella è il più frequente: oltre 600mila diagnosi, il 41 per cento di tutte le neoplasie che colpiscono il sesso femminile. Al secondo posto c’è il tumore al colon retto (12 per cento), segue quello al corpo dell’utero (7 per cento) e tiroide (6 per cento). Tra gli uomini invece prevale il tumore della prostata: 300mila casi, il 26 per cento di tutte le neoplasie diagnosticate nel sesso maschile, seguito da quello alla vescica (16 per cento) e al colon retto (16 per cento).

Per il malato oncologico, anche dopo aver debellato il cancro, il reinserimento sociale è un percorso a ostacoli. Oltre a uno stato emotivo fragile, deve affrontare lo stigma sul luogo di lavoro e la negazione dei diritti economici, per esempio l’accesso al mutuo, l’assicurazione sanitaria, i servizi finanziari. “Le adozioni sono un altro tasto dolente – aggiunge Iannelli della Favo -. Secondo i giudici devono essere passati almeno cinque anni dalla diagnosi per poter prendersi cura di un bambino. A questi poi si sommano i tempi infiniti della burocrazia e alla fine possono passare anche dieci anni. Si tratta di capire se c’è un rischio imminente o grave disabilità. Se una donna colpita dal cancro al seno ha solo subito un intervento chirurgico, senza fare le chemioterapie, perché deve subire un ritardo del genere?”. Le giovani colpite da linfoma o cancro mammario sono a rischio fertilità. La tecnica migliore per prevenirla è la raccolta degli ovociti prima dell’inizio della chemioterapia, la crioconservazione e l’utilizzo di farmaci che proteggono le ovaie durante i trattamenti. Un diritto che ogni anno viene negato a 1500 pazienti. Il Ssn infatti non si fa carico delle spesa dell’intervento. Il costo per l’utilizzo dei farmaci è di circa 50 euro. Mentre per la crioconservazione sale a 900 euro. Complessivamente se il conto fosse pagato dallo Stato sarebbe di circa 1,6 milioni di euro l’anno. Spesso il personale medico non è informato e molte pazienti ne rimangono all’oscuro.  Oggi su 120 centri di crioconservazione, solo 56 assistono anche le malate oncologiche.

Un’altra emergenza riguarda la diseguaglianza nell’accesso ai nuovi farmaci nelle diverse regioni: da un massimo di 170 giorni in Calabria a un minimo di 40, in base a uno studio del Censis. In media ne servono cento. Sommati all’iter di circa tre anni (1.070 giorni) per l’approvazione del farmaco: 400 giorni per il via libera da parte dell’agenzia regolatoria europea (Ema) e più o meno 570 per quella nazionale (Aifa). Il terzo scoglio è quello regionale, appunto, che prevede l’inserimento del farmaco nel Prontuario terapeutico ospedaliero regionale (Ptor) con le differenze dette sopra. “In molti casi – puntualizza Francesco De Lorenzo, presidente Favo – i ritardi sono causati dalla cadenza temporale delle riunioni delle Commissioni tecnico scientifiche regionali, che spesso avvengono con scarsa frequenza, anche dopo due anni”. La trafila però non finisce qui. “Una Commissione territoriale, pur non potendo inserire nel proprio Prontuario un farmaco non autorizzato dall’Aifa, può però escluderlo – spiega Carla Collicelli del Censis -. La stessa discrezionalità avviene nelle aziende ospedaliere: un Prontuario terapeutico ospedaliero non può contenere un farmaco non inserito nel rispettivo prontuario regionale ma può escluderlo dalla lista delle terapie disponibili. Si tratta potenzialmente di una forma occulta di razionamento poco conosciuta e monitorata – avverte Collicelli – che crea disuguaglianze territoriali e penalizza alcune fasce di cittadini”.

Ultima sfida: le reti oncologiche regionali. Previste nell’intesa Stato-Regioni del 30 ottobre 2014, al momento sono nate solo in Lombardia, Piemonte e Toscana. Permettono di razionalizzare le risorse e indirizzare i casi più complessi nei centri di riferimento. Per esempio, nel tumore del colon-retto la mortalità post operatoria a 30 giorni passa dal 15 per cento a meno del 5 quando vengono eseguiti 50/70 interventi l’anno. In quello dello stomaco si dimezza: da oltre il 20 per cento a meno del 10 se gli interventi sono 20/30 l’anno. In quello del polmone diminuisce dal 20 a circa il 15 per cento se si raggiungono i 50/70 interventi annui.

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