La parola più spesso pronunciata è responsabilità. Quella soltanto accennata, che sta dentro tutte le altre, è nostalgia. “So cosa vuol dire, perché l’ho già provata”, ha detto Ferruccio de Bortoli ai suoi giornalisti prima di lasciare via Solferino. Era il 30 aprile, oggi ci riceve nel suo ufficio alla Fondazione Vidas: “Non ho fatto un giorno di vacanza”. Sorride: “Sai, pensavo che la mia esperienza come direttore finisse con il Sole 24 Ore. Ho anche goduto di un tempo supplementare. Il ricambio, a tutti i livelli, è necessario”.

Parla di politica?
Non solo. Partiamo da una considerazione preliminare: la nostra classe dirigente ha progressivamente perso l’idea di quella che chiamo ‘responsabilità nazionale’. Insieme all’etica pubblica. La classe dirigente privata ha criticato spesso gli apparati pubblici e la politica per difetti che ha finito per mutuare, ingigantendoli. Questo è lo spaccato in cui sono venute meno anche le figure di riferimento morale.

La classe dirigente ha perso per strada il ‘sentimento’ della propria responsabilità

La vostra generazione ha delle responsabilità.
Non c’è dubbio. Abbiamo avuto buoni maestri, siamo stati cattivi maestri. È successo nell’intera società: abbiamo avuto ottimi padri, che si sono sacrificati moltissimo, ma non sempre siamo stati all’altezza del nostro ruolo quando lo siamo diventati noi. Lo dico anche per esperienza personale. È chiaro che ci sono tante eccezioni, però è vero che è un po’ svanita la coscienza collettiva. Pur con i suoi difetti, il secolo dell’ideologia aveva un’idea complessiva di bene comune, che non è affatto la sommatoria degli interessi privati. Ecco, da noi il bene comune è diventato una sorta di res nullius, che non ci appartiene. Gli spazi pubblici fatichiamo a sentirli nostri, tant’è vero che li trattiamo molto male. In questo senso dico che la classe dirigente ha perso per strada il ‘sentimento’ della propria responsabilità.

E’ avvenuto un cambio sostanziale nella forma di governo, siamo passati a un premierato forte: un passaggio che si è concretizzato con leggerezza colpevole

Per esempio?
Nel continuo pensare che lo Stato debba svolgere un ruolo di supplenza; nel fatto che in tutti questi anni gradatamente si sono trasferiti costi privati sul pubblico; abbiamo vissuto per molto tempo al di sopra delle nostre possibilità: fenomeni che hanno finito per ridurre il senso di responsabilità della classe dirigente. Tutti siamo consci di difetti e problemi, ma molto raramente si fa autocritica. Carenze, limiti, fragilità appartengono sempre al nostro vicino, sono la caratteristica decisiva del nostro nemico, del nostro avversario. L’autocritica, sostanziale e costruttiva, non c’è stata dentro i corpi sociali, da Confindustria al sindacato, non c’è stata all’interno degli ordini professionali. Così si è arrivati alla balcanizzazione della situazione italiana.

Il partito della Nazione è il trionfo del trasformismo. Ma attenzione, è una malattia che mina la base della democrazia

Questo è vero anche per i giornali?
Sul mondo dei media sono molto critico, però rifiuto l’accusa di un’informazione che non fa il proprio lavoro. Perché lo si dice pensando a un’informazione che dovrebbe avere un ruolo ancillare, essere una proiezione della comunicazione politica o d’impresa. L’informazione, e l’ho scritto, è per sua natura scomoda, deve illuminare gli aspetti oscuri. Dove non c’è informazione non c’è riconoscimento del merito, dei risultati; non c’è equità, non c’è concorrenza, non c’è nemmeno crescita economica. Abbiamo discusso a lungo dei costi di un’informazione sbagliata o reticente. Ma abbiamo parlato assai poco dei costi della non informazione, cioè spazi di società che non vengono toccati da un’informazione corretta, indipendente, perfino irritante. Quando i media non fanno sconti a nessuno c’è una maggiore circolazione delle idee, un maggiore confronto, e anche una maggiore legalità.

A cosa si riferisce?
I poteri – quello politico e quello finanziario – dovrebbero essere osservati, analizzati, seguiti con maggiore scrupolo e rigore. Penso anche al funzionamento degli organi pubblici, alla burocrazia, a legami sotterranei. Questo è un tema sul quale sono intervenuto più volte. Altrove si parla molto tranquillamente del ruolo di alcune associazioni.

Matteo Renzi ha portato la sfida della modernità all’interno di un partito ancorato a vecchi schemi ideologici. Dopodiché, a me pare abbia derivato dalla controparte molti dei modi coi quali gestisce il potere

La massoneria. Un argomento ricorrente nei suoi discorsi, a partire dal famoso editoriale sul patto del Nazareno e “l’odore stantio di massoneria”.
Come ho chiarito, non volevo dire affatto che il premier appartiene alla massoneria. Giravano molte voci ed era lecito porre una domanda di chiarezza. La libertà di associazione in Italia esiste. Ma se scelte o nomine di carattere pubblico o privato sono determinate da appartenenze di questo tipo, legittime ma non trasparenti, si deve sapere.

E dire che in Italia c’è stata la P2, il Corriere ne sa qualcosa.
Quello che è accaduto con la P2, come spesso capita per i fatti molto gravi, è stato dimenticato. L’Italia ha un rapporto difficile con la sua memoria, specie per quanto riguarda il passato prossimo. Così però si perde la percezione di credibilità, affidabilità, livello di onestà dei protagonisti della scena pubblica.

Abbiamo dimenticato Mani Pulite?
È stata rimossa. Tangentopoli è stata, diciamo, una fase in cui si è tentato di moralizzare il Paese, anche se non possiamo negare i limiti dell’azione giudiziaria, che credo abbia fatto luce solo su una parte del malaffare dell’epoca. Però dobbiamo dirlo: a differenza di adesso, era un malaffare indirizzato soprattutto ai partiti, mentre oggi mi sembra tutto indirizzato alle persone o ai gruppi di potere. Quella lezione non l’abbiamo storicizzata. Per esempio riguardo alla sostituzione dell’etica con la norma penale nel discorso pubblico: un tema che meriterebbe una riflessione ampia. Alla fine tutto si richiude: l’Italia è un Paese ad alta digeribilità, che non impara dai propri incidenti. Ci si rifà molto facilmente una verginità, e si cambia di aspetto e di maschera con grandissima velocità.

l’Italia è un Paese ad alta digeribilità, che non impara dai propri incidenti. Ci si rifà molto facilmente una verginità, e si cambia di aspetto e di maschera con grandissima velocità

La politica è il miglior esempio.
Credo che il trasformismo sia una delle caratteristiche peculiari del nostro Paese, non solo nella politica. Uno degli straordinari difetti dell’Italicum, che peraltro il Fatto ha ben sottolineato, è che aumenterà il grado di trasformismo della politica. Il partito della Nazione è il trionfo del trasformismo. Ma come: ci siamo divisi tra bianchi e neri, tra guelfi e ghibellini, per una vita e poi improvvisamente confluiamo tutti in un grande partito!

Perché è possibile adesso?
Intanto perché c’è un solo grande protagonista, al quale ovviamente dobbiamo riconoscere grandi meriti…

…e talenti, come lei ha scritto.
Matteo Renzi è uno straordinario comunicatore, è un politico raffinato. E poi c’è il disfacimento del centrodestra, di partiti che si erano in qualche modo stabilizzati in un bipolarismo molto claudicante nella Seconda Repubblica…

Berlusconi rischia di mangiare le proprie creature e di lasciare un’eredità che fa addirittura torto a quello che ha fatto

Berlusconi è finito?

Anche lui è stato un grande solista, ora incapace di passare il testimone: rischia di mangiare le proprie creature e di lasciare un’eredità che fa addirittura torto a quello che ha fatto. Comunque: in questa grande decomposizione del quadro politico l’Italicum favorisce il trasformismo, forse anche nella certezza di chi comanderà. Però il trasformismo, attenzione, è una malattia che mina alla base la democrazia. Vedo il rischio di un distacco tra la società e la politica: con la nuova legge elettorale non decidiamo più i nostri eletti, per il 60-70%, a Montecitorio.

Lei è favorevole al monocameralismo.

Sì, ma dubito molto delle funzioni di un Senato ridotto a una Camera di secondo grado, eletta dai consigli regionali. Il pericolo è un progressivo distacco dei cittadini che non credono più nel governo, nella politica, nello Stato e nella possibilità di stare insieme. L’effetto collaterale dell’Italicum sarà di aumentare l’astensionismo: se l’offerta politica si riduce a un Partito della Nazione, e ad alcuni residuali cespugli, che non hanno la minima attrattività perché sono perdenti nati… È avvenuto un cambio sostanziale nella forma di governo, siamo passati a un premierato forte: un passaggio che si è concretizzato con leggerezza colpevole. L’Italia, una democrazia immatura, ama l’uomo forte. Mentre la partecipazione è fatta da contrappesi, istituzioni che si rispettano. Siamo passati dal berlusconismo, che occupava le istituzioni anche con fini personali, a un impoverimento delle istituzioni, un indice importante del grado di salute della nostra democrazia.

Credo che ci debba essere un maggiore rispetto per le persone: quanti abbiamo ‘condannato’ sulla base di inchieste che si sono rivelate totalmente infondate?

I giornali sono stati all’altezza del passaggio?

Credo che in generale la media della stampa italiana sia stata più internazionale del proprio Paese, più avanzata sui temi dell’economia e della politica. Penso abbia svolto una funzione di stimolo e critica: dopodiché il giornalismo non fa mai abbastanza. Deve essere il più possibile acuminato, e contemporaneamente sapere che alla libertà si accompagna la responsabilità. Quando si sbaglia bisogna riconoscerlo. Per esempio credo che ci debba essere un maggiore rispetto per le persone: quanti abbiamo ‘condannato’ sulla base di inchieste che si sono rivelate totalmente infondate? Non ce la possiamo cavare con una breve in una pagina interna. Dobbiamo porci il problema di restituire a quelle persone la dignità. Più rispetto vuol dire anche più libertà: credo che questo sia un modo per immettere nel giornalismo anticorpi che possono difenderlo da una serie di condizionamenti subdoli, per esempio quelli del mondo pubblicitario, anche considerando che il settore non attraversa un periodo felicissimo dal punto di vista economico.

Lei ha detto che Renzi è allergico al dissenso, che mal sopporta le critiche. Le sue pare lo abbiano fatto particolarmente arrabbiare.
Non lo so. Vorrei ricordare che la novità di Renzi è stata salutata, anche da me, come una novità positiva: ha portato la sfida della modernità all’interno di un partito ancorato a vecchi schemi ideologici. Dopodiché, a me pare abbia mutuato dalla controparte molti dei modi con i quali gestisce il potere. La sua è una concezione autoritaria di occupazione delle istituzioni. A mio parere dovrebbe imparare – se vuole paragonarsi ai leader europei – che l’informazione non è un male necessario. L’informazione è scomoda, per lui come lo è stata per le persone che ha ‘rottamato’. Non può pensare che la stampa lo applauda costantemente. Questo riflesso personale autoritario m’inquieta.

Diciamo che i rapporti tra me e Renzi sono sempre stati tesi, ma non ci sono state solo posizioni contrarie

Vi siete scambiati sms: che dicevano?

Diciamo che i rapporti sono stati sempre tesi, ho ricevuto critiche per scelte che magari erano spiacevoli per lui. Ma non ci sono state solo posizioni contrarie: abbiamo elogiato la sua politica economica, per esempio.

L’avversione del premier ha inciso in questo suo travagliato anno al Corriere?
Assolutamente no. All’epoca delle leggi ad personam ho avuto una lunghissima querelle giudiziaria con Ghedini e con Pecorella, avvocati di Berlusconi. E con D’Alema ebbi tutta una serie di procedimenti che si interruppero quando diventò presidente del Consiglio, subito dopo Prodi. Con Berlusconi da tanto tempo non ci sentiamo più. Penso che il giornalista debba fare il proprio mestiere, cercare di farlo il meglio possibile. Mentre da noi c’è sempre una visione un po’ amicale del rapporto tra giornalista e politico. Ci si dà troppo spesso del tu, si va a cena. In questo, ho commesso degli errori anch’io.

Io non chiedo a un imprenditore o a un finanziere di non fare il suo mestiere. Non vedo perché loro debbano chiedere a me di non fare il giornalista

Cioè?
Ho capito che bisogna essere un po’ più rigidi, altrimenti la tua fonte pensa che tu non abbia regole. Io non chiedo a un imprenditore o a un finanziere di non fare il suo mestiere. Non vedo perché loro debbano chiedere a me di non fare il giornalista.

Questo è un problema nostro: le persone ci trattano come noi permettiamo loro di fare.
È vero. Il giornalismo, quando è temuto è autorevole, quando è indipendente si fa rispettare. Nel momento in cui accetti una mediazione o un compromesso, è la linea dalla quale non torni più indietro.

Le notizie non sempre piacciono ai protagonisti.
Il giornalismo deve nutrire l’opinione pubblica di verità, non sempre piacevoli. Deve far ragionare, mettere la classe dirigente nella condizione di valutare le priorità. Deve esercitare una pressione che induce a prendere decisioni, a tendere al meglio, a valutare molti aspetti di ogni singola questione. Dove non c’è opposizione, dove non c’è il controllo democratico da parte di giornali che sono i cani da guardia del potere, è chiaro che il potere non si comporta bene. Il potere tende a prendere pessime abitudini che fanno male alla democrazia.

Il giornalismo deve nutrire l’opinione pubblica di verità, non sempre piacevoli. Deve far ragionare, mettere la classe dirigente nella condizione di valutare le priorità

Questo accade perché come categoria abbiamo parecchio scodinzolato, più che abbaiato.
Sì. E forse abbiamo fatto anche molti sconti. Uno dei difetti principali del giornalismo odierno è quello di essere parte della scena che deve descrivere.

Questo si vede molto bene in tv.
Se fai questo mestiere, come dovrebbe essere anche per i magistrati, non devi avere né amici né sentimenti. Devi dire crudamente quello che succede e devi porti delle domande, essere inopportuno e temuto. Solo così il giornalista ha un ruolo. Perché il grande giornalismo anglosassone, quello vero, magari dice sì alla guerra, però poi non diventa il gazzettiere delle forze armate. Mentre qui abbiamo molti colleghi che sono, anche inconsapevolmente, embedded.

Le è capitato di essere in difficoltà nel pubblicare una notizia?
Una volta i magistrati ci chiesero di non pubblicare la notizia del rapimento di Alessandra Sgarella, che era avvenuto a Milano: ritenevano che ci fossero altissime possibilità che l’ostaggio venisse ucciso durante la notte. Però c’era un altro aspetto: il governo era di centrosinistra e l’allora ministro dell’Interno aveva detto che con il suo governo i rapimenti non c’erano più. Non pubblicare quella notizia diventava anche una scelta politica. Per questo chiamai Ezio Mauro e gli altri direttori, dicendo ‘dobbiamo uscire’. Andai a dormire con l’angoscia di sentirmi poi responsabile se per caso fosse successo qualcosa alla persona rapita: fortunatamente non accadde niente.

La malattia senile del giornalismo si manifesta quando accade qualcosa e tu pensi di sapere già come andrà a finire. Invece ti devi stupire, sempre

Nel suo Rendiconto d’addio ha parlato dei suoi “fin troppo litigiosi azionisti”. Molte pressioni?
È stata una separazione consensuale. Ho sofferto la grande litigiosità dei miei azionisti, però non vorrei toccare questo tema: fa parte del passato. Ho avuto problemi con molti di loro, alla fine devo riconoscere che il giornale me l’hanno fatto fare. Sono contento perché sono stato sostituito da Luciano Fontana: lui era la mia proposta iniziale. Sono convinto che proseguirà, innovando e facendo molte più cose meglio di me.

Il direttore del Corriere della Sera è un mestiere a sé, anche nel mestiere a sé del direttore. Molti azionisti da tenere a bada.
Nella prima direzione di più. Nella seconda meno, i rapporti si sono allentati. Forse è molto più difficile per un direttore avere un azionista unico, che gli chiede cose cui è difficile dire di no. Comunque la libertà è direttamente proporzionale alla capacità del giornale di essere autorevole e di avere le notizie.

Ezio Mauro dirige Repubblica da 19 anni, lei e Mieli avete diretto, con la doppia staffetta, via Solferino per un ventennio…
Sono diventato direttore per la prima volta nel ’97, succedendo a Paolo. Credo che il nostro tempo sia finito. La nostra generazione non ha favorito ricambi, anche perché si sono affrontate negli ultimi anni molte ristrutturazioni, che purtroppo si sono risolte a danno dei giovani: si sono tutelati di più gli anziani. Ecco, questa responsabilità generazionale l’ho sentita. Cioè, se devo fare una critica a me stesso, probabilmente ho fatto crescere molti giovani, ma avrei dovuto fare di più e meglio. Dopodiché, è chiaro che noi siamo ancorati a una visione un po’ novecentesca della politica, dell’economia, della società. Ho notato che la mia capacità di interpretare la realtà si è costantemente ridotta. Mi sono reso conto che l’angolo di visuale con cui guardavo il mondo e quindi con cui facevo il giornale si era ristretto.

Quando giudichi dall’alto, con la giacca e cravatta come faccio io, sei superficiale, superbo. E alla fine fai male il tuo mestiere

Che cosa significa?
Alcuni fenomeni, non capendoli, abbiamo preferito non affrontarli. Per esempio la cultura digitale. Per esempio i movimenti giovanili, le tendenze della cultura e della società: eravamo meno preparati di come avremmo dovuto essere per affrontare questi temi. All’inizio del nostro ventennio probabilmente saremmo stati degli innovatori più capaci. Forse ci siamo trasformati, siamo diventati conservatori. Del resto quelli che quando eravamo giovani noi vedevamo come anziani, erano molto più giovani di noi adesso.

Si perde la capacità di stupirsi?
Sai qual è la malattia senile del giornalismo? Quando accade qualcosa e tu pensi di sapere già come andrà a finire. E allora, credendo di sapere, hai un atteggiamento un po’ scettico e superficiale rispetto a quello che accade. Invece ti devi stupire, incuriosire, indignare. Sempre. Tu devi essere attratto dal sistema. Cioè, la tua carne, il tuo corpo, devono essere attratti dalle notizie. Ma quando tu ti soffermi sul ciglio – con la tua giacca e cravatta come faccio io – e giudichi dall’alto, sei superficiale, superbo. E alla fine fai male il tuo mestiere.

Tu devi essere attratto dal sistema. Cioè, la tua carne, il tuo corpo, devono essere attratti dalle notizie

 

È preoccupato per il Corriere? Si parla dell’ennesima, sanguinosa, ristrutturazione.
Come ho detto, il mio rapporto con gli editori si è interrotto il 30 aprile. Il mio legame affettivo con il giornale è indissolubile, continuo, e anche in questi giorni ne provo profondissima nostalgia. Ma sono convinto che il ruolo del Corriere rimarrà quello di prima, anzi, sarà estremamente potenziato dalla direzione di Luciano Fontana. Il Corriere ha sempre generato utili, anche quando era in amministrazione controllata. Mi sono sempre battuto per la centralità del Corriere all’interno del gruppo e credo che anche in questa fase gli editori riscopriranno e rilanceranno la centralità del Corriere.

Ora scrive sul Corriere del Ticino. Libri in cantiere?
Non so neanche se sono capace di scriverlo, un libro. Non è così facile scrivere un libro, sai? Io sono sempre stato, e resto, un giornalista.

@silviatruzzi1

Ferruccio De Bortoli, una vita in Via Solferino – E’ nato a Milano il 20 maggio 1953. Dopo la maturità, si laurea in Giurisprudenza all’Università Statale di Milano. Muove i primi passi nella professione giornalistica nel 1973, come praticante al Corriere dei ragazzi, lavora successivamente per il Corriere d’Informazione (il pomeridiano del Corriere), al Corriere della Sera, poi all’Europeo. Nel 1987 torna in via Solferino come caporedattore dell’economia. 

Nel 1993, Paolo Mieli lo promuove vicedirettore e nel 1997 assume la guida del quotidiano. Alla fine dell’incarico, nel 2003, diventa amministratore delegato di RCS Libri. È stato direttore de il Sole 24 Ore dal 2005 al 2009 e di nuovo del Corriere della Sera dal 2009 al 30 aprile di quest’anno. È stato presidente della casa editrice Flammarion (che faceva parte del gruppo Rcs) e vicepresidente dell’Associazione italiana editori. È presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano e di Vidas, associazione no profit di Milano che dal 1982 offre assistenza socio-sanitaria ai malati terminali.

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