Smantellare la centrale nucleare di Fukushima numero 1 (Daiichi), danneggiata da terremoto e tsunami l’11 marzo 2011, non sarà un lavoro facile. Per stare nei tempi promessi – secondo il governo di Tokyo ci vorranno tra i 30 e i 40 anni da qui alla fine dei lavori – la Tokyo Electric Power Company (Tepco) dovrà avere a disposizione un numero adeguato di uomini. E questo, a poco più di quattro anni dall’incidente nucleare più grave della storia recente, sembra essere un problema di massima urgenza. Soprattutto perché da qui al 2020 lo smantellamento della centrale vivrà la sua fase più critica.

Secondo quanto scritto nei giorni scorsi dal Fukushima Minpo – principale giornale locale – a inizio di quest’anno 174 addetti hanno lasciato la centrale per raggiunto limite di esposizione alle radiazioni, una soglia che la legge giapponese ha fissato a 100 millisievert in 5 anni. Secondo la ricostruzione del giornale, i 174 sono solo una parte degli oltre duemila lavoratori che in quattro anni sono stati esposti a quantità di radiazioni comprese tra i 50 e i 100 millisievert, superando in qualche caso i 20 millisievert l’anno, il limite stabilito dalla Commissione internazionale per la protezione radiologica (International Commission on Radiological Protection, ICRP).

Nella maggior parte dei casi, scrive ancora il Minpo, Tepco e le società appaltatrici trasferiscono i lavoratori ad altri incarichi dove l’esposizione alle radiazioni è minore. Ma la soluzione è di carattere temporaneo. Da qui ai prossimi anni, infatti, si prevede un aumento del numero dei lavoratori che dovranno lasciare l’impianto, una volta raggiunto il limite di esposizione fissato dalla legge. Tepco ha già fatto sapere che farà fronte alla “fuga” di forza lavoro da Fukushima numero 1, riducendo ulteriormente “il livello di radiazioni all’interno della centrale”. Ma è proprio dalle operazioni nelle zone più contaminate della centrale che si determinerà l’andamento futuro dello smantellamento della centrale e della bonifica dell’area.

La scorsa settimana l’azienda elettrica di Tokyo ha diffuso le immagini registrate da un robot radiocomandato all’interno del reattore 1, dove i livelli di radiazioni – insostenibili per un operatore umano – raggiungono i 10 sievert all’ora. Al momento gli operatori alla centrale sono impegnati a capire cosa fare delle barre di combustibile contenute nei reattori 1,2 e 3 i cui resti si sono depositati sul fondo delle vasche in seguito al meltdown.

Tepco ha fatto sapere che intende condurre le operazioni il più possibile in remoto, per evitare che i lavoratori rimangano esposti a una quantità elevata di radiazioni, ma il rischio di un turnover forzato, una volta concluse le operazioni, è comunque alto. L’utility energetica minimizza sulla scarsa disponibilità di manodopera. Sono più di 14mila i lavoratori, scrive sempre il Minpo citando fonti dell’azienda elettrica di Tokyo, che hanno operato nella centrale tra gennaio e dicembre 2014, 3mila in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. In tutto, sono oltre 41mila le persone che si sono ritrovate a lavorare nell’impianto dall’inizio dell’emergenza a marzo 2011.

Non sarebbe però solo questione di numeri. Parlando ai microfoni di Nhk World nel quarto anniversario del triplo disastro del 2011, un operatore ha denunciato la perdita dall’inizio dei lavori a Fukushima di almeno un terzo dei lavoratori qualificati prima a sua disposizione. La sua azienda, un’appaltatrice di Tepco, fatica a trovare forza lavoro altrettanto esperta e motivata. Per chi lavora a Daiichi, infatti, la paura di diventare hibakusha – un termine con cui dai tempi di Hiroshima in Giappone vengono stigmatizzati gli individui esposti alle radiazioni – è oggi più forte della voglia di lottare per un’emergenza che sembra non finire mai.

di Marco Zappa

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