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Prego entra, uomo affaticato e angosciato, col tuo carico millenario di stereotipi di ruolo, e aspettative da bread winner che deve portare a casa la pagnotta, sulle tue spalle ricurve. Lascia la giacca e spogliati, che ora penso io a te. Non c’è bisogno che ti dica di lasciarti andare, quando entri da quella porta sei già senza difese, e quella parvenza di forza, indipendenza, autonomia è sparita (la riprenderai dopo, nel porta ombrelli). Qui, in questo appartamento, sono io che porto avanti il gioco, sono io che ho il potere, anche se fuori mi raccontano come vittima, donna senza capacità né possibilità di decidere sulla propria vita. Eppure io ho scelto di fare la prostituta. Non ho bisogno di un permesso di soggiorno, non ho qualcuno che lucra su di me, faccio questo lavoro esattamente come un altro. O meglio no, perché non ci starei a spaccarmi la schiena a sollevare un anziano a ottocento euro al mese; né a fare la commessa, col datore di lavoro che magari ti tasta il culo e ti paga due lire in nero, dieci ore al giorno in piedi. Qui guadagno di più. E in fondo mi considero una curatrice, una lenitrice di dolori altrui. Non nego di aver paura a volte, quando un uomo entra qui per la prima volta. Non nego che a volte decidere di dire no, te no, mi provoca ansia, la paura della ritorsione che nasce dalla tremenda dipendenza di questi uomini da me. Ma se lo Stato mi tenesse meno nella clandestinità, se non punisse chi mi affitta un appartamento, o chi mi fa un book fotografico, mi sentirei più sicura; come lo sarei se ci fosse meno ipocrisia, se si dicesse il problema di questo mestiere non è il mestiere, ma le condizioni in cui si fa. Ma non mi illudo. Da una parte il retaggio cattolico, dall’altro il benpensantismo (anche di tante donne) lo impediranno. Più facile gridare allo sfruttamento, e poi lasciare le cose esattamente come sono.
