La narrazione, la narrativa, le storie. Se cercate un tormentone governativo siete nel posto giusto e la parole di moda sono quelle lì, ripetute e reiterate, sottolineate, rilanciate via Twitter, nei discorsi, nelle riunioni e in ogni occasione possibile. In una parola: fiction. “La nostra narrativa, il nostro racconto agli italiani basato su atti concreti, deve essere per un futuro visto come luogo di speranza e opportunità”, ha detto Matteo Renzi alla direzione Pd dell’altro ieri. Insomma, ottimismo. Le cose vanno bene, il futuro è un luogo che ci aspetta per far festa, e del resto l’uso ossessivo della parola “gufi” è rivolto esattamente a chi non accetta questa “narrativa”.

Attenzione: non è una cosa nuova, ed è anzi un classico di chi governa. Si pensi ai corposi precedenti di Silvio Berlusconi buonanima, quello col sole in tasca, quello che va tutto bene, la crisi non c’è, i ristoranti sono pieni, eccetera eccetera. È un approccio classico, insomma, niente di nuovo sotto il sole: chi governa dice che le cose vanno benino e chiunque faccia notare il contrario diventa nemico. Semmai, unica novità, Renzi e i renziani amano spingere sul versante generazionale, e così la loro “narrativa” viene infarcita di citazioni pop, riferimenti culturali da fiction televisiva, film di moda, cantanti famosi (compreso Jim Morrison, il frontman dei Doors, presentato dal sottosegretario Bressa come “uno dei grandi pensatori del secolo scorso”, salvo poi attribuirgli parole di un altro, e vabbè).

Coniugare insomma una narrativa positiva, ottimista, le sorti “luminose e progressive” con un immaginario da consumatori di fiction tivù, di buone o cattive canzoni, di cultura pop. “Si dovranno studiare anche le serie televisive”, disse il premier nel maggio scorso parlando della gloriosa scuola di partito delle Frattocchie e della formazione della nuova classe dirigente del Pd. E non solo. Prendendosela con i talk show (quelli che si ostinano a non piegarsi alla sua “narrativa”) twittava qualche settimana fa: “Dobbiamo cambiare modo di raccontare l’Italia e la politica”.

 Alla fine, dichiarazione dopo dichiarazione, dimostrazione dopo dimostrazione (e le slide, e il gelato, e i secchi d’acqua ghiacciata, e House of Cards, e i cantanti, e le serie tivù alla moda) la famosa “narrativa” rischia di apparire per quello che è: un semplice cambio di palinsesto. Dal rassicurante, burbanzoso, benestante, plasticoso ottimismo dell’era Berlusconi (cieli azzurri, Mediaset style) a un più aggiornato mainstream culturale, carino, moderno, che “piace alla gente che piace”.    

Basterà? Difficile dire, ma quel che è certo è che la “narrativa”, per quanto aggiornata e gradevole non può essere totalmente altra cosa rispetto alla realtà. Quando un’inchiesta televisiva, per esempio, ha mostrato la non proprio entusiasmante (eufemismo) situazione della scuola (pubblica) italiana, la “narrativa” governativa si è limitata a un bombardamento di tweet di propaganda. Bella narrazione, per carità, ma chiunque ha figli a scuola e conosce la realtà direttamente ha pensato a una modesta fiction. Che sia in atto un impoverimento del paese, che avremo (anche relativamente presto) un problema di pensioni miserrime, che milioni di italiani siano – pur avendo un lavoro – sulla soglia della povertà, sono fatti che nessuna narrativa può negare, a meno di non ricorrere alla fantascienza. Bello per carità, House of Cards, e impareggiabile talento Jim Morrison. Purtroppo poi esci da quel tweet e c’è la vita reale.

Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2015

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