Una volta mise in fila i requisiti del buon giornalista: “Passione, fiuto, dedizione, costanza, pignoleria, spirito di sacrificio”. Mentre faceva quell’elenco, Livio Liuzzi si guardava allo specchio. Raccontano che in redazione stava anche 15 ore, che anche da direttore si metteva a “passare” gli ultimi pezzi nelle pagine ancora aperte. Insieme ad altri suoi colleghi aveva salvato il Tirreno, il giornale di Livorno, da morte certa. Raccontano delle sue incazzature per gli errori che trovava, mentre i suoi pezzi si sono sempre puntellati sulla “lotta al Palazzo” e il rispetto per la “gente”, la libertà di stampa, l’informazione cane da guardia, lo slancio per superare la verità raccontata a pappardella dalle fonti ufficiali. La notizia, il tentativo di scoprire la verità che non fosse comoda, è stato il segreto del successo dei giornali che ha contribuito a far crescere. Livio Liuzzi se n’è andato a 72 anni ancora da compiere. Era il padre di Emiliano, giornalista del Fatto Quotidiano, e di Leonardo, che sui giornali vende spazi pubblicitari.

livio liuzziLivio Liuzzi (a destra nella foto) è stato uno dei protagonisti dei giornali locali italiani: per anni vice e condirettore al Tirreno (il più diffuso dei quotidiani regionali della Finegil), direttore per 14 anni de La Nuova Sardegna, il primo quotidiano del nord dell’isola. Origini pugliesi, nacque a Udine e si trasferì da bambino a Pisa. Qui cominciò a fare il giornalista, prima di arrivare nella redazione centrale di Livorno dove si occupò di tutti i i settori. Nell’estate del 1976 fu tra coloro che salvarono Il Telegrafo che stava agonizzando dopo un periodo di crisi e minacce di chiusura da parte dell’editore Monti che aveva già fatto partire le lettere di licenziamento. Liuzzi fu tra coloro che costituirono la cooperativa Libera Stampa che poi fu messa in mano a Carlo Caracciolo per l’acquisto da parte del Gruppo Espresso e la salvezza finale: rinacque il Tirreno e Liuzzi fu vicedirettore di Mario Lenzi e condirettore di Luigi Bianchi. Infine la guida della Nuova Sardegna dal 1991.

Non ha mai voluto padroni, se non i lettori che avrebbero dovuto comprare il giornale il giorno dopo. Quando nel 2005, un anno dopo l’elezione di Renato Soru a presidente della Regione, lasciò la direzione de La Nuova Sardegna, non salutò i lettori, come di solito è abitudine. Il testo era già pronto, ma lassù – al Gruppo Espresso – non gradirono. “Io il pezzo non lo cambio, se non vi va bene non si pubblica nulla” disse. E infatti fu Caracciolo, l’editore, a comunicare ai lettori il cambio, esprimendo “una valutazione positiva del percorso compiuto dalla Nuova, divenuta sotto la guida di Liuzzi un vero grande giornale locale, mai realmente insidiato dai concorrenti in una vastissima area dell’isola”. La Nuova Sardegna era diventato un “vero grande giornale locale” grazie alle notizie date e forse anche a quelle non date.

Le notizie date. Nel 1993 – due anni dopo essere arrivato in Sardegna da Livorno – scatenò una specie di guerra all’Unione Sarda usando gli elenchi della massoneria: fece pubblicare nomi e cognomi degli affiliati. I concorrenti dell’Unione alcuni giorni dopo provarono a pareggiare, con elenchi di persone di altre città. Ma se c’era una cosa che a Liuzzi non piaceva erano i giri di parole: “Noi abbiamo pubblicato gli elenchi veri, quelli sequestrati da Cordova (Agostino, il magistrato, ndr). I loro non sono completi. Sono quelli che la massoneria fa circolare, nomi già sputtanati”. Fece fare altri pezzi e tirare fuori altri elenchi: il duello a distanza continuò per giorni.

Le notizie non date. Nel 1992 – durante i giorni drammatici del rapimento di Farouk Kassam – il suo giornale ricevette una delle lettere dei sequestratori, “Pagate subito o tagliamo un orecchio al ragazzino”: Liuzzi decise di non pubblicarla, rispettò la consegna del silenzio e la consegnò alla Procura.

Sul rapporto tra libertà di stampa e responsabilità dei giornalisti, una decina d’anni dopo, disse: “In questo Paese dobbiamo mettere delle regole. Che devono essere rispettate da tutti. Troppo facile e semplicistico scaricare la colpa sui giornali. Certo, a volte i giornali tendono ad enfatizzare a ingigantire ma credo faccia parte delle regole del gioco. Dobbiamo far sì invece che i giornali abbiano sempre un’informazione corretta. Senza censure ma corretta. Informazione corretta però vuol dire pubblicare tutte le notizie senza censurare quelle che dispiacciono al sindaco o al questore. Siamo un paese dove tutto viene ingigantito o sminuito per svariate ragioni. A volte solo per caso. In questa ottica noi giornalisti, con le nostre debolezze le nostre passioni, abbiamo le nostre responsabilità. E di questo vi chiedo perdono, per quanto possa valere”.

E a rileggere alcuni interventi, sembra roba da Ritorno al futuro. Secondo Liuzzi, per esempio, sindacato e ordine dovevano fare di più per liberare le mani dei giornalisti: “La legislazione sulla stampa, la diffamazione, i reati di opinione stanno lentamente trasformando il modo di fare giornalismo appiattendo la professione su un ‘velinismo‘ sempre più grossolano”. Non solo niente carcere, ma neanche processi: “Se un giornalista pubblica una notizia falsa, o non verificata per negligenza, deve essere l’Ordine a sanzionarlo in modo adeguato, non il giudice”.

E la modernità non è solo tecnica. La Nuova Sardegna fu il secondo giornale della Finegil, dopo il Tirreno, ad avere una versione online. Ma internet non serve a nulla se non resta il primato della professione. “I giornali locali – spiegò – dovranno cambiare qualcosa nel modo di fare informazione. Dovrà essere più curato il rigore, la completezza. Dovremo togliere gli spazi di approssimazione che ancora oggi ci sono. Dovremo fare giornali più attenti ai bisogni della gente e meno ai bisogni del Palazzo. Tutto dipenderà da noi, dalle nostre capacità di giornalisti. Non da internet”.

Oppure quando, poco prima della pensione e alla vigilia del trionfo di Soru, avvertì la politica: “Certo i partiti devono cambiare. Questo è il nodo. Più vicini ai bisogni della gente, staccati dai giochi di potere, più attenti all’evolversi della società. Le risposte sono il segnale macroscopico, forse sin troppo evidente, del disagio con cui gli elettori avvertono la loro presenza. Indica una assoluta insofferenza per il modo con cui hanno gestito in questi anni il potere”. Altrimenti, scrisse, si sarebbe sollecitato e ingigantito “il fenomeno del qualunquismo, dell’estraneità, della non appartenza”.

A Emiliano, al fratello Leonardo e a tutta la famiglia di Livio Liuzzi va l’abbraccio affettuoso della redazione del Fatto Quotidiano.

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