Ancora una volta, in Italia, su certi temi nasce il corto circuito. Nasce una dicotomia, una situazione contraddittoria, ma che non è complicata da spiegare: paghiamo i ritardi e le ipocrisie del passato; paghiamo i taciuti tentativi di affossare iniziative progressiste ed all’avanguardia, che valgono per il resto dei paesi civili ma che da noi, sotto traccia (più o meno), vengono annullate da forze oscurantiste…Temi scomodi per queste ultime, diritti inalienabili per altri, che per fortuna qualcuno o qualcosa costringe a ritirare fuori.

La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia perché è stato impedito a una coppia di nostri connazionali di mantenere, presso il proprio nucleo famigliare, un bambino avuto con la tecnica dell’utero in affitto. Il piccolo, infatti, dopo pochi mesi è stato “restituito” alla madre biologica – una donna russa – come hanno stabilito la nostra giustizia. Ma la Corte europea non è stata dello stesso avviso e ha denunciando l’Italia perché avrebbe negato alla coppia che s’è servita della madre surrogata, il proprio “diritto a formarsi una famiglia” ed è andata contro il principio che un minore non può essere allontanato dalla famiglia in cui vive ed in cui è inserito da tempo, se non per un “rischio immediato”.

Sono un centinaio le coppie italiane che ogni anno si rivolgono a “madri surrogate” per rispondere all’impossibilità ad avere un figlio in maniera naturale. Assistiamo a veri e propri “viaggi della speranza”, soprattutto verso l’est Europa, perché l’utero in affitto è una pratica vietata dalle nostre parti. Basterebbe poi avviare pratiche di adozione del piccolo avuto col contributo di un’altra donna, per mettere a tacere i burocrati; ma evidentemente la coppia la cui vicenda è stata trattata dalla Corte di Strarburgo di carte bollate ne aveva fin sopra i capelli e ha immaginato che bastasse l’amore che si respirava all’interno del proprio nido famigliare per fare il bene del piccolo. E così sarebbe dovuta andare.

Ma come dicevo, il nostro è il Paese delle contraddizioni su questi argomenti. E così nelle stesse ore in cui l’Italia riceveva l’ennesima bacchettata dall’Europa, la ministra della sanità, Beatrice Lorenzin, decideva di inserire nel prontuario dei Lea (i Livelli essenziali di assistenza sanitari) la fecondazione omologa, ma anche quella eterologa, la cui bocciatura da parte della famigerata “legge 40” è stata oramai definitivamente derubricata dalle sentenze della Corte costituzionale.

Ora tutte le Regioni italiane dovranno prevedere piani di assistenza, e nel caso anche di copertura economica, per garantire ai propri cittadini che ne avessero la necessita, di poter accedere alle pratiche di fecondazione che prevedono l’utilizzo di gameti esterni alla coppia. Anche in questo caso il principio cardine da cui tutto prende il via è il pieno diritto alla genitorialità di ogni coppia. Ma la contraddizione, evidente, sta nella domanda: perché in questo caso sì e in quello dell’utero in affitto no?

Per fortuna c’è la Corte di Strasburgo a darci una mano a rispondere a questo tipo di domande. Che nel nostro Paese è complicato porsi, forse un po’ meno rispetto a qualche anno fa, ma i “corto circuiti”, come abbiamo visto, ancora tendono a nascere. Sono il segno di una società, per alcuni aspetti, ancora immatura ma che sembra essere sulla via di rinsavire. Che sia stata Beatrice Lorenzin, una ministra che su certi temi non s’è certo dimostrata totalmente aperta, ad aprire i Lea a certe pratiche, è quell’ottimo riscontro che dimostra che la via del progresso è oramai intrapresa. Ma a che costi…Con che ritardo…E con quanti rischi ancora di incappare in nascosti sgambetti posti da forze reazionarie? Questo substrato oscurantista è ciò che ancora paghiamo e che ci fa essere l’Italia delle contraddizioni.

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