Oggi siamo davvero tutti Charlie, e non solo per il bisogno di stringerci in un cordoglio profondo, di scambiarci un’incredulità che non può quietarsi, ma perché a cadere sotto i colpi che hanno decimato il più fastidioso e pungente periodico satirico di Francia non sono stati unicamente il direttore Charb, i vignettisti Wolinski, Cabu e Tignous, i cinque redattori, il portiere dello stabile e i due poliziotti; a cadere sotto i kalashnikov per la colpa di aver irriso i fanatici di Allah sono stati il diritto di satira – ovvero la più laica e libertaria tra le forme di espressione – e l’idea stessa su cui si regge l’Unione europea: una convivenza di culture, lingue e fedi capaci di rispettarsi reciprocamente.

Charlie Hebdo rappresentava – e continuerà a farlo – uno sghignazzo in faccia ai costruttori di paura, ai dispensatori di verità e di odio, ai seminatori di morte. Abbiamo visto immagini di uomini mascherati armati come in guerra, di appostamenti delle teste di cuoio, abbiamo ascoltato il gergo tecnico delle azioni militari, il veleno sparso negli studi televisivi e nel web, abbiamo sentito all’infinito il grido di Allah u Akbar oscenamente unito agli spari, come una sentenza di morte. Moschee ed edifici islamici sono stati attaccati durante la notte in tutta la Francia e una granata è stata lanciata contro la moschea della città di Le Mans. Nulla è più lontano dalla sgangherata immagine di giocosi, sorridenti, disordinati creatori di vignette raccolti in una riunione di redazione a progettare il prossimo numero del settimanale che ci accompagna dal 1969; ed è attorno a questa immagine che ci stringiamo, mentre tutto attorno si procede a confondere l’Islam con il terrorismo, l’immigrazione con il fondamentalismo; mentre si grida alla necessità di chiudere le frontiere e “fermare l’invasione”, perché “il nemico è tra noi”. Il nemico – l’attentatore, il traditore nascosto – è lo straniero, il musulmano, il migrante: termini divenuti sinonimi, benché in questo caso si riferiscano a persone nate e cresciute in Europa, che parlano una delle sue lingue, come i due terroristi e come il poliziotto dell’undicesimo arrondissement da loro freddato mentre accorreva a cercare di fermarli.

Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha definito il massacro di Charlie Hebdo: “una barbarie che ci riguarda tutti in quanto esseri umani e in quanto europei”. Se si volesse dar sostanza a queste parole, se le si volesse strappare alla retorica, ci si dovrebbe interrogare con estrema gravità sul susseguirsi di affermazioni di eurodeputati appartenenti a partiti antislamici. Matteo Salvini ha scritto in un tweet che “il nemico ormai lo abbiamo in casa” e che occorre “bloccare l’invasione clandestina in corso”, “fermare Mare nostrum e simili”, “verificare chi finanzia moschee e centri islamici”, “perché chi non rispetta la vita e la libertà non merita niente”. Le invettive di Oriana Fallaci, i suoi anatemi – o fatwa, parola che nell’Islam significa semplicemente “sentenza” – contro i musulmani che ci odiano e ci invadono vengono additate come profezie che si avverano.

Moschee, migranti e terroristi vengono messi a comporre lo stesso immaginario di assedio, mentre chi promuove l’accoglienza e il soccorso in mare viene accusato di intelligenza con il nemico. “La sinistra rifletta su politiche migratorie e d’integrazione”, ha dichiarato un altro eurodeputato leghista, Lorenzo Fontana, responsabile per gli Affari esteri, “abbiamo l’estremismo islamico in casa, ma l’Occidente continua a calare le braghe, oscillando tra un buonismo irresponsabile e un masochistico solidarismo”.

L’obiettivo dei fondamentalisti islamici e delle destre xenofobe appare paradossalmente molto simile: la costruzione della paura, dell’odio, della separazione. I musulmani europei – che siano cittadini di seconda generazione o migranti considerati “irregolari” – diventano le vere vittime di un terrorismo manovrato da stati, nati sulle macerie delle nostre guerre e delle nostre politiche di disseminazione del caos, e colpevolmente utilizzato da quei partiti e movimenti che sull’insicurezza e l’’arroccamento identitario cercano rendite di posizione.

“Io sono Charlie”, è scritto da ieri sulla homepage del settimanale, su un fondo nero come il cratere lasciato da una bomba: in sette lingue, la prima delle quali è l’arabo. Se lo scopo dell’azione terrorista era produrre una dichiarazione di guerra contro l’Islam, quel che rimane della redazione di Charlie Hebdo vuol dirci fin da subito il contrario: occorre trasformare questo micidiale attacco al cuore laico della convivenza europea in un’apertura di dialogo.

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