“Come cittadino italiano che ha deciso di rimanere e lavorare nel proprio Paese e di avviare un gruppo economico che oggi occupa diverse centinaia di persone ritengo che il rispetto delle Istituzioni, in primis della Magistratura, siano un valore, anche quando non ricambiato, ben più importante delle ragioni di un singolo individuo. Continuerò quindi a proclamare, ma sottovoce, la mia evidente innocenza e a fare tutto quello che mi è concesso per vederla, in futuro, riconosciuta”. Si conclude così la lettera di commiato che Matteo Arpe ha inviato ai dipendenti di Banca Profilo nel giorno delle sue dimissioni dalla presidenza e dal cda dell’istituto in seguito alla sentenza della Cassazione sul caso Parmalat-Ciappazzi.

“Quest’anno ho compiuto 50 anni e 28 anni di carriera bancaria. Difficile distinguere nella propria vita gli aspetti personali da quelli professionali quando entrambi fanno parte di un unico indistinto di passioni e rapporti – si legge poco sopra nel documento che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare – Come sapete, prima di Banca Profilo ho partecipato ad un’altra importante ristrutturazione bancaria che ha interessato uno dei principali gruppi bancari del nostro Paese. La recente sentenza della Cassazione si riferisce proprio a quel periodo. Vi sono ancora alcuni mesi o forse anni, perché tutta la sentenza ritorni in secondo grado e poi in Cassazione. Ma per una parte importante è già definitiva ritenendomi responsabile di un reato relativo alla concessione di un finanziamento. Effettivamente è storicamente accertato che io avessi detto di no all’operazione, che non abbia partecipato ad alcuna riunione, né al comitato crediti ed al consiglio di amministrazione che in mia assenza deliberarono il finanziamento. Tant’è”.

I giudici di primo e secondo grado hanno condannato Arpe a tre anni e sette mesi per bancarotta fraudolenta, mentre la Cassazione pur condividendo l’impianto accusatorio, il 5 dicembre scorso ha disposto per lui e gli altri imputati un nuovo processo di Appello che dovrà rideterminare al ribasso le pene. All’ex banchiere che all’epoca dei fatti era direttore generale di Banca di Roma-Capitalia (oggi Unicredit) è contestata la firma sul documento di trasmissione di un finanziamento ponte da 50 milioni a Parmalat. Il prestito era già stato approvato dal cda della Banca di Roma presieduto da Cesare Geronzi (per lui la richiesta era di 5 anni per bancarotta fraudolenta e usura, con il secondo reato che è caduto in prescrizione) in concomitanza con l’acquisto da parte della stessa Collecchio delle decotte acque minerali Ciappazzi di proprietà un altro grande debitore dell’istituto, il gruppo Ciarrapico  e subito girato dalla società agroalimentare alla controllata Parmatour che versava in condizioni tali da rendere proprio impossibile la concessione di un finanziamento diretto.

In particolare per il pg della Cassazione Pietro Gaeta Arpe ha “ricevuto un flusso informativo costante sulla vicenda del finanziamento alla Parmalat”, come dimostrato dallo scambio di mail, appunti e testimonianze. “La linea difensiva di Arpe era che lui era fuori Roma (…) avrebbe firmato un finanziamento senza saperlo – ha sottolineato nella sua requisitoria – ma in questo modo si vuol far credere che Arpe sia stato raggirato dai suoi fedelissimi che gli avrebbero messo sotto il naso un foglio da firmare con un finanziamento da 50 milioni di euro, per Parmalat, dicendogli ‘firma, firma’. E lo sventurato firmò!”.

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