La scorsa notte ho sognato Reyhaneh Jabbari, condannata a morte per aver ucciso un uomo che aveva cercato di stuprarla. La comunità internazionale si era mobilitata per salvarla e aveva fatto pressioni perché fosse sospesa la condanna a morte e commutata in detenzione. Anche gli Stati Uniti hanno ipocritamente protestato contro la barbarie della sua condanna, dal pulpito della loro democrazia che applica regolarmente la pena di morte in molti Stati.

Ma il mio sogno non parlava di morte. Incontravo Reyhaneh di notte, in una città buia e vociante di una folla di uomini. Mi sedevo con lei attorno ad un piccolo tavolino di acciaio. Non eravamo sole. Insieme a noi c’erano le mie amiche care, quelle  di una vita. Reyhaneh ci parlava nella sua lingua ma ci comprendevamo. Diceva di amare la musica, era serena e ci mostrava uno strumento musicale a noi sconosciuto prima di allontanarsi e di scomparire dietro l’angolo di un chiosco. A quel punto la città era scomparsa ed io mi trovavo su una spiaggia mentre albeggiava, pronta ad imbarcarmi con altre donne su una nave arrugginita  che ci avrebbe fatto attraversare l’oceano, verso qualche meta nuova e sconosciuta.

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Mi sono svegliata al mattino  pensando a questa giovanissima donna che a ventisei anni, dopo cinque lunghi anni trascorsi in carcere,  ha scelto di morire per non mentire, come invece le aveva chiesto di fare,  la famiglia di Mortaza Abdolali Sarbandi, l’uomo che lei aveva ucciso per difendersi da un tentativo di stupro. La condizione delle donne è durissima in Iran come in molti altri Paesi nel mondo, troppi. Esistono società feroci con le donne dove la violenza contro di loro viene  esercitata come un diritto. Mi raccontava un attivista di una associazione umanitaria che era vissuto a lungo in Afghanistan che gli uomini che commettono violenza contro le donne sono arrestati e se condannati, cosa che avviene raramente, ottengono sempre  la grazia. In Iran, Reyaneh non ha ottenuto nemmeno le attenuanti  per la legittima difesa.

Quando appena dicianovenne, era stata attirata con l’inganno in casa da quell’uomo che l’aveva aggredita, avrebbe dovuto pagare  un prezzo altissimo anche se non si fosse difesa. Forse avrebbe rischiato di essere uccisa dopo lo stupro oppure avrebbe subìto l’emarginazione sociale se lo avesse svelato. In qualche modo, come tante donne in Iran e nel mondo, sarebbe stata spinta al silenzio. Ma Reyhaneh si è difesa e ha svelato la violenza di quell’uomo potente, un medico che aveva fatto parte dei servizi segreti.

Il suo gesto forse potrà essere di esempio per le donne iraniane, come lo fu quello di Franca Viola per le italiane, quando  rifiutò di mettere le cose “in ordine” e non accettò il matrimonio riparatore che avrebbe  evitato il carcere al suo stupratore. A lei spettò un diverso destino ma quell’atto di resistenza significò molto per la denuncia della violenza contro le donne.

Reyhaneh ha resistito e si è rifiutata di mettere le cose ‘in ordine’ negando la riabilitazione all’uomo che aveva cercato di stuprarla e per questo ha dovuto morire.

Sua madre Shole Pakravan ha detto che la figlia è salita sullo sgabello febbricitante e ha danzato sul patibolo poco prima di essere uccisa dal boia. Ha danzato per se stessa, ha danzato anche per le donne iraniane. Che non sia dimenticata.

@Nadiesdaa

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