Ogni volta che il cosiddetto “califfato” compie il suo rito di decapitazione, manda ai mezzi di comunicazione dei video di 2 minuti e 46 secondi di questo atto criminale. I giornali, perlomeno quelli italiani, scelgono un fotogramma “sterile” di quel video, e quasi sempre è lo stesso. Questi fotogrammi meritano una lettura perché, anche nella loro versione meno violenta, possono insegnare molto sulla natura umana.
Leggere una fotografia è uno degli insegnamenti che Roland Barthes ci ha lasciato nel suo oramai celebre libro del 1980 ‘La camera chiara’. In quel libro il semiologo si sofferma molto tra il legame fra le foto e la morte. L’atto di fotografare una persona, un luogo, un paesaggio dice: “questo è stato”. In qualche modo ha valore di testimonianza, e osservando le fotografie dei nostri genitori quand’erano bambini, cioè prima che li conoscessimo, vediamo qualcosa che ci ha preceduto, che è fuori della nostra vita. Le persone riprese in una foto, dice Barthes, sono come spettri.
Torniamo alle foto delle decapitazioni dell’Is. Lo sfondo è sempre un deserto, potrebbe essere Marte o un altro luogo fuori del pianeta Terra. Non ci sono case né tende, macchine o alcun altro segno di civiltà umana, perché il gesto che si sta per vedere non si colloca nella sfera dell’etica umana. La vittima è inginocchiata, indossa una tunica arancione, che nella semiologia vendicativa del cosiddetto “califfato” deve richiamare Guantanamo. Ma a Guantanamo – chi osserva questo fotogramma non deve dimenticarlo – non si tagliavano teste. Il male, la crudeltà, hanno dei gradi, non tutte le cattiverie umane sono dello stesso livello. Legare Guantanamo alla decapitazione di un innocente è sacrilegio della vita umana.
La vittima ha il volto scoperto, ci guarda, ma nella foto siamo in 4. Io che guardo e che sono testimone della sua imminente uccisione, il tagliatore di teste, chi fotografa che è complice di chi taglia (i nazisti speravano di eliminare tutti i testimoni del loro crimine; Is si comporta al contrario, vuole dare una diffusione mondiale di ogni uccisione delle sue vittime). Il volto di una persona, insegnava il grande filosofo Emmanuel Lévinas, ha un valore etico fondamentale e un richiamo a non uccidere. Proprio l’atto di vedere un volto deve far scaturire questo comandamento. E quando il volto è privo di vita diventa altra cosa, che Lévinas descrive con parle di rara bellezza: “il volto morto diventa forma, maschera funebre, si mostra invece di lasciar vedere, ma appunto così non appare più come volto” (da Totalità e infinito).
L’assassino è vestito di nero, si vedono solo gli occhi come in tanti vestiti di donne musulmane – ed è nota la paura dell’Is di tutto ciò che è femminile. L’assassino non mostra la faccia, sa di essere il criminale e perciò si nasconde, e non guarda la sua vittima mentre lo uccide. Nei video di questi atti di estrema violenza il tagliatore di teste parla con marcato accento inglese, se non londinese. Egli non è autoctono perché il “califfato” è immaginario, non è figlio di nessuna comunità, dal deserto che fa da sfondo non nasce appunto niente.
C’è anche il coltello. Si vede nel fotogramma perché si tratta di un rito. Non pistole né fucili, ma un’arma primitiva di altri temi. In certi paesi arabi il tagliatore di gole è un ruolo previsto dallo Stato, come il boia in una certa cultura americana.
Le vittime di questa pratica assassina sono donne, ebrei, curdi, cristiani, yazidi, e si annuncia che il prossimo sarà un convertito all’Islam. Chi analizza queste decapitazioni si rende conto che si tratta in realtà dell’umanità intera. Con queste uccisioni Is commette crimini contro ogni membro dell’umanità, e queste foto, questi video, sono prove per ogni tribunale che dovrà giudicare questi senza volto per crimini contro l’umanità.