Roberto Vitaliano era – prima di tutto – una persona perbene. Come ce ne sono tante: padri di famiglia che hanno passato la vita a lavorare, con onestà, fierezza e sempre con la schiena dritta. Senza mai nemmeno l’indugio di piegarla. Padri di famiglia italiani che fanno dell’onestà la loro Bibbia e del rigore la loro quotidianità. Lavoratori che orgogliosamente danno il meglio di sé per onorare il proprio operato.

Uomini che hanno sogni, valori, ideali e che per quelli combattono senza mai perdere la speranza. Senza mai perdere il senso di un progetto che è più grande delle beghe di palazzo.

Persone che non vengono celebrate mai. Non vanno mai in tv. Non diventano parte di libri di storia ma che, pure, sono la storia perché diventano modelli, educatori, punti di riferimento per generazioni di giovani che nel loro nome saranno altrettanto onesti, altrettanto idealisti, altrettanto perbene.

Roberto Vitaliano, era mio zio. Ed era come un padre per me. Ci univa, non solo, un cognome, che sarebbe niente, ma l’amore e la stima e la passione del vivere. Ci univa la politica, di cui parlavamo per ore; ci univa la Ferrari che grazie a lui amavo e conoscevo. Quando lavorava a Maranello, ai tempi di Schumi, mi chiamava e mi lasciava ascoltare il rombo della macchina del campione, in pista per le prove. Ci univa il mare, che adoravamo in ogni stagione, in ogni riflesso e ondulazione. 

La lontananza – che gestisco sempre con grande lievità – diventa peso insopportabile nella solitudine del dolore. Quando ti mancano gli abbracci familiari a sorreggerti e restare in piedi. E ti manca essere presenza che testimonia il senso di una storia che continua.

A me, però, è stato donato il privilegio delle parole. E con quelle io provo a dire un addio che non sia tale ma sia promessa di non dimenticare. Di non lasciare che la morte, quella terrena, abbia il sopravvento. 

Oggi, in memoria di una persona perbene, Roberto Vitaliano, io rendo omaggio a tutti coloro che rendono migliore questo mondo senza nemmeno un titolo di prima pagina, con l’umiltà rivoluzionaria dei sognatori. Quelli, però, con le maniche rimboccate, sempre.

E lo saluto, come avrebbe voluto, con la bandiera della Ferrari a sventolare sulla finestra, il pugno chiuso, e gli occhi che guardano lontano, oltre l’argento dell’Hudson. Verso il Jersey. Verso il domani.

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