Sul reclutamento delle figure di vertice della Pa il governo sembrava essere partito con il piede giusto, ma il disegno di legge delega ripete molti degli errori passati. Servono competenze nuove e contaminazioni con settore privato e università. Uno sguardo all’esperienza francese.

di Alfredo Ferrante (lavoce.info)

L’equivoco continua

Fra le diverse proposte di riforma della Pa presentate dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Innovazione e della Pubblica amministrazione lo scorso 30 aprile nella ormai famosa lettera ai pubblici dipendenti, meritano una particolare riflessione quelle sul reclutamento della dirigenza. Partendo da una domanda semplice: quale dirigenza serve alla Repubblica? E per fare cosa?
Nelle sue dichiarazioni programmatiche alla Camera, in aprile, Marianna Madia ha espresso la volontà di estendere a tutta la dirigenza il sistema di reclutamento del corso-concorso della Scuola nazionale dell’amministrazione. Si tratta di una felice inversione di marcia: dopo il reclutamento-spezzatino degli ultimi venti anni, si indica un unico canale di entrata, altamente selettivo e meritocratico, per individuare le professionalità che servono a un’amministrazione moderna, contribuendo a creare quello spirito di corpo che è sempre mancato alla dirigenza pubblica italiana.
L’attuale sistema (definito dall’articolo 28 del decreto legislativo 165/2001) si basa infatti su un’illogicità di fondo: metà della dirigenza è reclutata attraverso la Sna, con un concorso di accesso aperto a esterni e interni, un periodo di formazione, un tirocinio e, dopo un esame finale, l’approdo alla direzione di un ufficio, chiavi in mano; l’altro 50 per cento tramite i concorsi riservati agli interni delle singole Pa, oggettivamente meno onerosi e impegnativi, con un passaggio presso la Sna solo dopo l’entrata in ruolo. I due percorsi portano esattamente alla medesima figura dirigenziale, senza distinzione alcuna in relazione agli incarichi. Ovviamente, però, un percorso più lungo, costoso e selettivo e con una formazione mirata diviene un inutile spreco se non è accompagnato da un conseguente utilizzo dei dirigenti così formati.
In ogni organizzazione occorre essere consapevoli di quale management sia necessario, reperendolo con modalità mirate e coerenti con il risultato che si intende ottenere, ma questo vale ancor di più per la dirigenza pubblica, motore di ogni processo di policy. Eppure il disegno di legge delega “Repubblica semplice” sembra perpetuare l’equivoco. Prevede infatti a) un concorso unico con assunzione a tempo determinato e successiva assunzione a tempo indeterminato, previo esame di conferma dopo il triennio di servizio; b) il corso-concorso, con entrata in servizio come funzionari per quattro anni e successiva eventuale immissione nel ruolo unico della dirigenza previo superamento di un esame. L’impressione è che non solo non si intenda valorizzare adeguatamente, pur con le opportune correzioni, la quasi ventennale esperienza del reclutamento per corso-concorso, ma che sia ancora assente un’idea forte di quale dirigenza si cerchi e per quale scopo.

La formazione

Si pensi, per esempio, all’École Nationale d’Administration francese, dove si reclutano annualmente alcune decine di figure secondo quote prestabilite: per il 50 per cento giovani non facenti parte della Pa; per il 40 per cento circa interni alle amministrazioni; per il restante 10 per cento individui provenienti dal settore privato. Dopo due anni di corso, inframmezzato da periodi di tirocinio, l’approdo al Consiglio di Stato, nella diplomazia o nelle amministrazioni centrali. Insomma, si cerca e si forma l’eccellenza per le posizioni apicali nello Stato.
Nella stessa Francia ci si misura ormai con l’esigenza di rivedere in profondità il modello di concorso pubblico, per renderlo meno nozionistico e più improntato al possesso di competenze manageriali e di leadership. Anche in Italia si dovrebbe proseguire con maggior decisione su questa strada, pena il permanere di quella forma mentis formalistico-burocratica che, se unica dimensione dell’agire pubblico, ha il fiato drammaticamente corto.
Il ruolo di una scuola governativa unica di reclutamento e formazione – specialmente alla luce dell’unificazione operata dall’articolo 21 del Dl 24 giugno 2014, n. 90 – deve essere allora quello di pescare dalle università le eccellenze, non richiedendo più per l’accesso nozioni amministrativo-contabili che occorre dare per scontate e costruendo percorsi sempre più improntati all’esperienza pratica e allo studio dei casi. Non va neppure trascurato il fattore costituito dal periodo che gli allievi trascorrono assieme, cementando legami che durano nel tempo e che crescono sulla base di una visione e di valori comuni. Auspicabili anche test selettivi psico-attitudinali che mirino a verificare quelle doti relazionali, collaborative e di equilibrio indispensabili per reggere una Pa che opera sempre più secondo sistemi di reti di public governance. Altrettanta attenzione va poi dedicata alla formazione continua della dirigenza, con un coordinamento tra Sna e mondo universitario.

Vietato fallire

L’ultima annosa questione riguarda l’acquisizione di esperienze dall’esterno. È opportuno che almeno una parte dei dirigenti abbia già svolto attività manageriale nel settore privato o che torni a svolgerle obbligatoriamente dopo un periodo nelle Pa? E come reclutarli? L’esperienza della dirigenza esterna per chiamata diretta (articolo 19, comma 6 del Dlgs 165/2001) ha purtroppo dimostrato di essere troppo spesso un canale per amici e sodali della politica e non è certamente un caso che le varie riforme l’abbiano mantenuta sostanzialmente integra. Il caso francese, da questo punto di vista, chiude il cerchio: prevedere l’accesso dal settore privato attraverso una quota del corso-concorso nazionale, magari con modalità diverse dagli altri due canali di entrata, soddisferebbe l’esigenza di positiva contaminazione e di tutela dell’imparzialità dell’azione amministrativa per i cittadini.
Attendiamo i testi ufficiali, dunque. Sono tanti e importanti gli argomenti controversi, dalla possibile precarizzazione della dirigenza al funzionamento dell’istituendo ruolo unico. La discussione in Parlamento dovrà essere ampia e partecipata e non ci si potrà nascondere dietro a “no” precostituiti. Ma se non si parte da idee chiare sul processo di individuazione e sul conseguente utilizzo delle risorse umane, la riforma fallirà nel suo punto cardine: dare al paese una dirigenza più forte, più preparata alle sfide di un mondo complesso e più coesa attorno ai valori repubblicani. Insomma, la dirigenza che l’Italia merita.

*Dal 2002 è dirigente pubblico nei ruoli del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e, dalla fine del 2009, dottorando di ricerca in Economia e Gestione delle Aziende e delle Amministrazioni Pubbliche presso la Facoltà di Economia dell’Università “Tor Vergata” di Roma. Si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università “La Sapienza” di Roma.

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