Le violenze degli ultimi giorni testimoniano che dopo la (ri)presa delle città irachene di Falluja e Ramadi da parte di cellule qaediste il Paese vive ancora nell’inquietante ricordo del decennio passato. L’invasione americana del 2003 ha aperto un vuoto di potere destabilizzante, di cui da diversi anni traggono beneficio soprattutto le multinazionali petrolifere. Perché sì, possiamo dirlo: in Iraq c’è stata una guerra per l’oro nero.

Nel 2011, anno in cui si chiuse formalmente il conflitto, le truppe statunitensi e le compagnie mondiali del greggio hanno fatto staffetta, si sono date il cambio con l’obiettivo di avviare un restyling completo dell’industria petrolifera nazionale. Prima della guerra il comparto era totalmente chiuso all’ingresso delle società occidentali. I margini di trattativa erano bassisssimi. Dopo dieci anni di sangue e migliaia di vittime il mercato del petrolio iracheno, oggi, è gestito esclusivamente da privati come ExxonMobil, Chevron, British Petroleum e Shell.

Ognuna di queste compagnie possiede filiali importanti nel Paese. Anche la texana Halliburton, dove lavorò Dick Cheney, ex vicepresidente degli Stati Uniti, oggi mantiene diverse attività redditizie. In molti negli anni hanno sostenuto che il petrolio fosse il primo motivo (anche se non il solo) alla base di una guerra per cui i cittadini iracheni stanno pagando ancora il loro prezzo.

“Non possiamo negare che di mezzo ci sia il petrolio”, confessò il generale John Abizaid, ex capo del Comando Centrale degli Stati Uniti e delle operazioni militari in Iraq, nel 2007. “Sono rattristato che sia politicamente sconveniente riconoscere quello che tutti sanno, ovvero che la guerra in Iraq è stata aperta per il petrolio”, si legge su un libro di memorie scritto dall’ex segretario del Comitato dei Governatori della Federal Reserve, Alan Greenspan.

Il risultato è che per la prima volta in 30 anni le compagnie petrolifere occidentali hanno cominciato ad esplorare la via dei giacimenti iracheni, tra i più grandi al mondo, raccogliendo ingenti profitti. Dal canto suo Washington ha mantenuto un alto livello d’importazioni a seguito dell’invasione, anche se l’approccio commerciale degli States non è servito in alcun modo a rilanciare l’economia nazionale di Baghdad.

Nel 1998 Kenneth Derr, allora amministratore delegato di Chevron, disse che “l’Iraq possiede enormi riserve di petrolio e di gas“. Ammise che gli sarebbe piaciuto accedervi. Oggi lo fa. Nel 2000 sono state la Exxon, Chevron, BP e Shell a promuovere George W. Bush e il suo vice Cheney alla Casa Bianca. Dopo nemmeno una settimana dalle elezioni il loro sforzo venne ampiamente ripagato con la creazione della National Energy Policy Development Group (NEPDG), una task force energetica affidata, guarda caso, proprio a Dick Cheney, con il compito di sviluppare una politica energetica nazionale in supporto del comparto privato.

La circostanza naturalmente accompagnò l’amministrazione americana e le multinazionali mondiali del greggio a un tavolo comune; nel mese di marzo furono rivisti gli elenchi e le mappe che delineavano l’intera capacità produttiva irachena nel comparto. E’ in quel momento – secondo diversi analisti dell’industria petrolifera – che si apre la pianificazione di un invasione militare contro Saddam Hussein. L’allora primo segretario al Tesoro Paul O’Neill nel 2004 confessa che il progetto era già stato pensato nel febbraio 2001, ben 6 mesi prima degli attentati dell’11 settembre.

Tant’è che un mese più tardi la NEPDG, in una delle sue numerosi relazioni, sostiene che i paesi del Medio Oriente vanno sollecitati “ad aprire le aree dei loro settori energetici agli investimenti esteri”. Questo, precisamente, è ciò che è stato realizzato in Iraq.

Trascorsi un paio d’anni e iniziato il conflitto, il governo di Baghdad, già fortemente condizionato da Washington, decise infatti che il suo mercato petrolifero avrebbe dovuto accogliere l’interesse degli investitori internazionali. Per questo venne costituito un comitato ad hoc che guidasse le operazioni commerciali. I membri non sono mai stati resi pubblici, ma è noto che vi facesse parte Ibrahim Bahr al-Uloum, poi nominato ministro del Petrolio iracheno dal governo americano di occupazione. Da quel momento i rappresentanti di ExxonMobil, Chevron, ConocoPhillips e Halliburton, mantennero incontri di routine con lo staff di Cheney agendo come dei veri e propri consulenti dell’esecutivo iracheno.

Prima dell’invasione erano due i fattori che ostacolavano l’attività delle compagnie petrolifere occidentali: Saddam Hussein e la legislazione nazionale. Ucciso il primo e by-passata la seconda, con la ferma opposizione dell’opinione pubblica irachena e del Parlamento, tutto cambiò. Le imprese occidentali cominciarono a firmare contratti su contratti che agevolassero l’accesso al trattamento del petrolio nel Paese aprendo, nel tempo, un vortice di privatizzazioni inarrestabile.

Il meccanismo portò la produzione petrolifera irachena ad aumentare di oltre il 40 per cento in cinque anni, per 3 milioni di barili di greggio al giorno, ma l’80 per cento del prodotto ancora oggi viene esportato lasciando la popolazione locale in una paradossale precarietà energetica. Il Pil pro capite è aumentato significativamente, ma rimane ancora tra i più bassi al mondo e ben al di sotto delle stime vantate dagli altri vicini arabi. I servizi di prima necessità come l’acqua e l’elettricità rimangono un lusso, mentre il 25 per cento della popolazione vive in uno stato di assoluta povertà.

La promessa di nuovi posti di lavoro legati allo sviluppo del comparto energetico deve ancora materializzarsi. I settori del petrolio e del gas oggi rappresentano meno del 2 per cento dell’occupazione totale, mentre le società straniere si affidano a una manodopera importata. Ebbene sì, in Iraq c’è stata una guerra per il petrolio. A poco più di una decina di giorni dall’anniversario dell’aggressione americana (il 20 marzo 2003) è sempre un bene ricordarlo.

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