“Vedrete, scoppieranno degli scandali. Ci sono troppi soldi che girano in politica”. La previsione è del senatore repubblicano John McCain ed è stata formulata all’arrivo della notizia che molti attendevano ma che ha comunque travolto Washington. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha fatto cadere i limiti ai contributi elettorali multipli. Finora un singolo non poteva donare più di 123mila dollari a un insieme di candidati, partiti o comitati politici (46mila e 200 dollari quando si tratta soltanto di candidati). La sentenza della Corte elimina il tetto e, secondo molti, consegna la politica americana – e la democrazia Usa – nella mani di un ristretto gruppo di ricchi. Ancor più di quanto già non sia oggi.

La decisione è stata presa a maggioranza, cinque contro quattro. I nove giudici si sono divisi per aree di appartenenza ideologica. Hanno votato a favore i cinque conservatori (John Roberts, Antonin Scalia, Anthony Kennedy, Samuel Alito, Clarence Thomas). Contrari i quattro liberal (Stephen Breyer, Sonia Sotomayor, Elena Kagan, Ruth Bader Ginsburg). Proprio Breyer, motivando la sua opposizione, ha spiegato che “a questo punto una sola persona potrà distribuire milioni di dollari a candidati e politici”. E il senatore democratico del Vermont, Bernie Sanders, ha detto che “è ora di salvare la democrazia americana, se si crede ancora al principio ‘una persona un voto’”.

La questione del limite alle donazioni politiche “combinate” è stata portata dinnanzi alla Corte Suprema da un uomo d’affari e milionario dell’Alabama, Shaun McCutcheon. Di provata fede repubblicana, McCutcheon nel 2012 non aveva potuto sforare il limite dei 46mila 200 dollari e si era trovato a finanziare “soltanto” 16 candidati repubblicani. La maggioranza della Corte gli ha dato ragione e ha sostenuto che in questo modo, ponendo un limite al suo desiderio di sostenere ancor più candidati, si era leso il diritto al “free speech”, la sua possibilità e capacità di esprimersi liberamente.

La sentenza della Corte lascia, per il momento, inalterato l’altro limite alle donazioni: quello che impedisce a un cittadino americano di contribuire alla campagna politica di un candidato con più di 2.600 dollari. Ma, secondo alcuni, l’obiettivo dei conservatori è proprio questo: eliminare qualsivoglia tetto alle donazioni e far affluire nella politica Usa un fiume spropositato di dollari. Questa Corte – guidata da un presidente conservatore, John Roberts, nominato da George W. Bush – già nel passato ha del resto mostrato una particolare attenzione al tema della “libertà di assegno”. Con una decisione del 2010 – la United Citizen v. FEC – la maggioranza dei giudici ha eliminato ogni ostacolo alla capacità di corporations, associazioni e sindacati di far affluire soldi nei conti correnti dei candidati.

Se a questo si aggiunge che già oggi i più ricchi tra gli americani hanno la possibilità di donare liberamente ai super-PAC – comitati di azione politica che hanno di fatto sostituito i partiti e che possono investire migliaia di dollari pro o contro un candidato senza per forza rivelare la fonte dei finanziamenti – si capisce quanto il rischio di una democrazia sempre più governata dai soldi sia un problema reale. Va del resto ricordato che il sistema attuale di limiti, che la Corte sta progressivamente abbattendo, venne creato dal Congresso Usa negli anni immediatamente successivi allo scandalo del Watergate, proprio per contenere i rischi di corruzione profonda dell’intero sistema.

Quegli anni, e quei rischi di corruzione, sono ancora ben presenti nell’opinione pubblica, tanto che tutti i sondaggi degli ultimi mesi mostrano che una decisa maggioranza di americani è favorevole a porre limiti rigidi ai contributi elettorali. La cosa non deve essere sfuggita al giudice Roberts, che nella sua sentenza scrive che “i soldi in politica possono apparire ripugnanti ad alcuni”. Ma, aggiunge Roberts, ripugnante è anche “dar fuoco alla bandiera americana, o le proteste ai funerali, o le parate naziste”. Eppure sono cose che “il Primo Emendamento vigorosamente protegge”. Quindi, conclude Roberts, nonostante l’indignazione popolare, il Primo Emendamento “protegge anche la libertà di discorso politico”, in altre parole la libertà di staccare assegni illimitati in tempo di elezioni. Un’interpretazione che è stata duramente contestata dai critici della sentenza. “La libertà di espressione non significa libertà di comprarsi il governo degli Stati Uniti”, ha detto sempre il senatore Bernie Sanders.

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