La vittoria è stata schiacciante: 10 mesi per un stabilimento nuovo di zecca in Tennessee contro dieci anni per un semplice ampliamento a Rimini. Così gli Stati Uniti si sono portati via un pezzetto di made in Italy e con lui un investimento da 50 milioni di dollari e un centinaio di posti di lavoro. Stiamo parlando della romagnola Del Conca, industria fiore all’occhiello del comparto ceramico nostrano, che proprio in questi giorni ha inaugurato un sito americano da 30mila metri quadrati. Per metterlo in piedi e cominciare a sfornare le prime piastrelle è bastato meno di un anno di lavoro, tra accordi, permessi e costruzione. Tempi inconcepibili in Italia, dove l’azienda aspetta dal 2004 il via libera per allargare la propria sede di San Clemente.

A raccontarlo è Enzo Donald Mularoni, classe 1952, ad del gruppo Del Conca. “Con questa esperienza oltreoceano abbiamo potuto mettere a confronto due sistemi: quello italiano che tutti conosciamo, dove la burocrazia è vischiosa e lenta, e quello statunitense, dove invece la parte pubblica cerca di rimuovere gli ostacoli, offrendo non soldi ma servizi”. A San Clemente, realtà di poco più di 5mila abitanti in provincia di Rimini, Mularoni sta aspettando da 10 anni una variazione del piano regolatore per poter costruire una nuova ala dello stabilimento. Ci sono stati colloqui, vertici e documenti di pianificazione, ma risultati pochi. “E questo nonostante tutte le amministrazioni si siano sempre dichiarate favorevoli. Ma non è un problema di San Clemente, è un problema del sistema Italia. Qui la variabile tempo è fuori controllo, perché ci sono decine di controparti da mettere d’accordo e valutazioni, come quelle d’impatto ambientale, da superare. Non è affatto incoraggiante per un’impresa: si può aspettare un anno o vent’anni”.

E se in Italia le ambizioni di Mularoni si sono arenate, gli Stati Uniti gli hanno aperto la strada. Letteralmente. La nuova fabbrica si trova al numero 155 sulla Del Conca Way, rettilineo costruito dal dipartimento dei trasporti del Tennessee e intitolato proprio all’azienda riminese. Dopo l’accordo firmato a dicembre del 2012 per l’acquisto di un terreno da 110 mila metri quadrati nella città di Loudon, i lavori per lo stabilimento non hanno incontrato nemmeno un stop. Nessun ostacolo, nessun permesso speciale, carta bollata da vidimare, o amministratori da convincere. I primi mattoni dello stabilimento sono stati posati all’inizio del 2013. Mentre a luglio, dopo 7 mesi, sono sbarcati in suolo americano i container con presse, forni, macchine per la colorazione digitale e tutta la tecnologia indispensabile a produrre piastrelle di alta qualità. E così addio Italia, benvenuto Tennessee.

“Voglio chiarire una cosa: non è una delocalizzazione, ma un’internazionalizzazione fatta con lo scopo di presidiare il mercato americano e svilupparlo. Il cuore rimarrà in Italia, dove si cercherà, anche in futuro, di non ridimensionare la produzione e dove il piano di ampliamento non sarà abbandonato”. Nessuna conseguenza, promette, per i lavoratori italiani. “Dallo stabilimento americano uscirà più che altro il prodotto basico, mentre quello italiano sarà dedicato ai prodotti più sofisticati”.

Il progetto negli States, che sarà guidato dal fratello di Mularoni, Paolo, ha visto un investimento totale da 50 milioni di dollari, di cui 30 in tecnologia prodotta in Italia. E un piano di assunzioni di 100 dipendenti, ai quali si potrebbero unire altre 78 persone nel corso dei 6 anni successivi. Dipenderà da come andranno gli affari. Di sicuro la scelta di attraversare l’Oceano è stata presa non solo per la velocità dei tempi tecnici. Va considerato infatti che il 75% del fatturato complessivo del gruppo (che si aggira sui 121 milioni di euro) arriva proprio dall’export e in particolare dal mercato americano. “A questo si aggiunga che il mercato edilizio statunitense appare in ripresa e che avere una base là significa ridurre notevolmente tempi e costi per il trasporto. La clientela infatti è diventata più esigente e pretende di avere merce su suolo americano, senza aspettare e dover pagare dazio”.

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