Gutenberg è morto, Steve Jobs pure e tutta l’editoria non sta molto bene. Che siano su carta stampata o su iPhone e iPad, molti giornali italiani soffrono la crisi e tagliano. Tagliano soprattutto i redattori. Per questo il sottosegretario all’editoria, Giovanni Legnini, sta pensando a un nuovo sistema triennale di aiuti pubblici mentre il governo ha deciso di stanziare 120 milioni di euro per quelle testate che si ammoderneranno con nuove tecnologie o assumeranno giovani. I prossimi (e soli) contributi certi però sono quelli del 2014. Sul tavolo ci sarebbe solo un’ottantina di milioni di euro, poi bisognerà vedere.

Nel frattempo sono però scomparsi 600 posti di lavoro solo quest’anno e per sostenere disoccupazione, cassa integrazione e contratti di solidarietà tra giornalisti servono 33 milioni di euro. Come mai? Pesano la cassa integrazione e soprattutto la solidarietà, perché a quest’ultima gli editori ricorrono sempre più spesso potendo abbattere il costo del lavoro senza dover rinunciare alla manodopera. La tendenza non sarà tanto diversa nel 2014, visto che le previsioni non sono di molto inferiori ai numeri di quest’anno. Sono finite anche le risorse per i prepensionamenti: il budget di 20 milioni di euro si è esaurito e non si sono ancora visti i finanziamenti per accompagnare almeno i redattori più anziani alla pensione.

Adesso c’è pure un ulteriore problema: lo Stato non ha più soldi e si ritrova costretto a fare maggiore attenzione a quanto distribuisce e ha distribuito nel passato. Da recuperare ci sarebbero per esempio più di 64 milioni di euro erogati a 13 giornali dal 1998 a oggi. Testate che non avevano tutti i requisiti richiesti dalla legge ma sono riusciti ad ottenerli lo stesso. Tra loro svettano l’Avanti, Libero e il Nuovo Riformista.

Comunque, anche ammettendo che lo Stato riesca a recuperare tutti e 64 i milioni di euro che mancano all’appello, quello che ci sarebbe da risolvere è la crisi dei giornali e di tutto il settore industriale dell’editoria italiana, dalle aziende che producono carta per i giornali a chi li manda in stampa, da chi li distribuisce nelle edicole agli edicolanti stessi. Per esempio gran parte della carta usata per stampare quotidiani e periodici viene importata, perché ormai in Italia non ci sono più aziende che la producano.

Le ultime sono fallite e una sola di medie dimensioni resiste in Lombardia. Discorso diverso per gli stampatori che, se sono indipendenti, scontano i pagamenti in ritardo da parte degli editori e, se sono gli stessi editori, tendono a stampare sempre meno copie perché vendono sempre meno copie. Per evitare di sottoutilizzare gli impianti, alcuni di loro hanno deciso di riunirsi e stampare insieme, come fanno alle porte di Milano, nello stabilimento di Rcs MediaGroup per le regioni del Nord, il gruppo del Corriere della Sera, quello torinese della Stampa e il Messaggero della romana Caltagirone Editore.

Anche la distribuzione risente delle ristrettezze economiche dei giornali, che cercano di spendere meno ed essere presenti solo nelle zone fondamentali dello Stivale e quelli che hanno di più il polso della scomparsa dei lettori sono gli edicolanti. Dai 42mila punti vendita del 2005, secondo i dati dell’associazione di categoria Fenagi, si è scesi fino ai 30mila di quest’anno. Di liberalizzazione degli orari e dell’assortimento di merci da esporre in vendita (i gadget rendono più dei giornali) non se ne parla ancora concretamente, né il governo ha deciso di informatizzare le rivendite. L’utilità dell’informatizzazione? A fronte della dilagante moria della carta stampata, servirebbe almeno a capire se e dove si vendono ancora giornali e dove invece abbondano le rese.

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