Quattro delle settantotto paratie mobili previste dal Mose di Venezia si innalzano dall’acqua e scatta l’applauso delle autorità, che assistono in diretta all’evento grazie a una gita in barca comprensiva di brunch (particolarmente apprezzato il baccalà, riportano le cronache). Per chi volesse immaginarsi la scena di sabato scorso c’è un modello inarrivabile. E’ quella del Cetto Laqualunque vittorioso che, qualora il “ponte di Pilu” che unirà la Sicilia al continente non dovesse bastare, promette anche un tunnel “perché un buco mette sempre allegria”.

Si può immaginare che la stessa contagiosa euforia abbia pervaso politici e imprenditori del Consorzio Venezia Nuova di fronte allo spettacolo di un naturale complemento fallico al tunnel di La qualunque, ossia il poderoso meccanismo di innalzamento idraulico dei cassoni metallici, finalmente in funzione. Si tratta o no della più grande opera pubblica oggi in corso di realizzazione d’Italia? In fondo sono passati solo 10 anni dall’inizio dei lavori, e ne mancano appena tre – c’è da crederci? – alla conclusione, per un costo finale stimato di 5 miliardi e 494 milioni di euro, a cui invece non crede proprio nessuno.

E’ appena il caso di ricordare che il costo stimato nel 2001 era di circa 1,8 miliardi, raddoppiati già nel 2003. Che al Consorzio Venezia Nuova, esistente dal 1984 e coagulo delle maggiori imprese e cooperative di costruzioni, calibrato per assicurarne un bilanciamento politico bipartisan, dal 1984 è stata affidata con una legge speciale la concessione di tutti gli interventi per la salvaguardia di Venezia. E che di conseguenza, senza gare d’appalto né concorrenza, lo stesso consorzio ha provveduto a progettare, sperimentare e realizzare “l’opera epocale” che tanto a cuore stava a Berlusconi.

Non ci soffermiamo sulle molte e note ragioni di dissenso, tra cui l’impatto su un ecosistema così fragile della cementificazione dei delicati fondali lagunari imposta dal Mose – del resto lo stesso Laqualunque invoca “Un paese di pilu e cemento armato”. Occorrerebbe sommarvi anche il rischio di sostanziale inefficacia del sistema di paratie mobili nel fronteggiare sia le maree che il previsto innalzamento marino; i costi giganteschi dell’opera rispetto agli standard di analoghi interventi di salvaguardia realizzati in altri paesi; gli altissimi oneri futuri di manutenzione (che però forse si trasformeranno d’incanto in profitti ulteriori nelle tasche del Consorzio)

Si può sintetizzare la critica di fondo all’approccio Mose utilizzando la sapienza di Nassim Taleb nel suo libro “Antifragile”. Nulla è più casuale, imprevedibile, opaco alla nostra comprensione attuale della miriade di fattori che potranno condizionare i futuri equilibri umani e ambientali della laguna veneziana. La soluzione Mose è sbagliata perché è rigida in un universo naturale e di conoscenze in continua evoluzione. E’ scorretta perché vincola a una soluzione fissa e irreversibile – se non a costi altissimi e con tempi lunghi – la risposta un problema di straordinaria complessità come quello di salvaguardare Venezia e la sua laguna. Per questo l’ombra della catastrofe (ambientale ed economica) aleggia dietro al Mose.

Al contrario, le proposte alternative di una pluralità di micro-interventi più “ecosostenibili”– dal contenimento delle maree con il rialzo dei fondali all’impiego di cassoni autoaffondanti rimovibili stagionalmente – avrebbero assicurato le desiderabili qualità di antifragilità descritte da Taleb: capacità di adattarsi rapidamente agli imprevisti, di correggere gli errori in tempi brevi, di imparare dall’esperienza, diventando col tempo sempre più efficaci nel tamponare la violenza di madre natura. Oltre a un ulteriore e non trascurabile pregio, quello di gravare sui bilanci pubblici per una quota infinitesima della grande opera Mose. Ma forse per qualcuno questo era da considerarsi un difetto, e non da poco.

In un paese in cui da anni si operano tagli secchi a istruzione, ricerca, cultura, sanità e servizi sociali, abbiamo imparato fin troppo bene a conoscere la retorica che accompagna il gigantismo sbruffone delle grandi opere, quasi sempre superflue, trascinate per decenni o eterne incompiute. Grandi opere che nel migliore dei casi diventano grandi abbuffate per pochi, nel peggiore si trasformano in tragedie, come ci ha ricordato il cinquantenario della catastrofe del Vajont e della sua diga, la più alta mai realizzata nel mondo, “orgoglio dell’ingegneria italiana”. E’ un modello sperimentato con successo sfruttando emergenze vere, come terremoti e alte maree, oppure creandone di artificiali – si veda il successo ottenuto coi rifiuti nelle strade di Napoli. Piccole e grandi emergenze moltiplicate all’infinito senza mai risolverle, dato che la loro principale funzione è una sola: autorizzare spese e poteri straordinari, sciolti da ogni controllo, coi quali scavare voragini nei bilanci pubblici, magari ammantando l’operazione con una patina efficientista che maschera interessi opachi e profitti illeciti.

In attesa di un terzo grado di giudizio, se mai arriverà prima della prescrizione o dell’amnistia, ci possiamo limitare a un arido elenco dei più recenti provvedimenti giudiziari che hanno scosso la credibilità del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico per la realizzazione del Mose, sul versante della legalità. L’arresto dell’ex presidente del Consorzio, che con altri dirigenti avrebbe creato fondi neri dalla destinazione ignota, aumentato fittiziamente il costo dei prodotti, spartito gli appalti tra imprese amiche, tacitando gli scontenti con denaro e opportunità ritagliate in altri enti pubblici. L’arresto per frode fiscale dell’amministratore della Mantovani, una tra le principali ditte realizzatrici del Mose. E siccome frodi, corruzione e mafie notoriamente vanno a braccetto, non poteva mancare – pochi giorni fa – l’arresto di due dirigenti dalla società fornitrice delle cerniere su cui sono agganciate le paratie, accusati di aver aiutato un clan mafioso ad aggiudicarsi finanziamenti pubblici e subappalti.

Sembrerebbe una conferma che in questo tipo di operazioni – e in quadro politico così disastrato – il partito unico degli affari si va oggi affermando come il principale centro di potere in grado di guardare lontano nel pianificare le proprie attività, coltivando con lungimirante dedizione (in questo caso addirittura dalla legge speciale per Venezia del 1984 ad oggi) contatti trasversali con un potere politico notoriamente corruttibile. E’ in questo universo di grandi e piccoli comitati d’affari che probabilmente va ricercato uno dei collanti invisibili del connubio bipartisan che a livello nazionale sta assicurando certezze di stabilità a grandi intese manifeste e ancor più grandi profitti nascosti.

Nel corso della cerimonia, di fronte alle proteste dei soliti guastafeste del No-Mose, il Presidente del Consorzio Nuova Venezia ha rassicurato gli astanti: “Polemiche pretestuose, quest’opera è stata approvata da tutti i governi, di centrodestra e di centrosinistra”. Si fosse trattato di un processo, una frase simile sarebbe risuonata quasi come una confessione.

 

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