“Il carcere di Rebibbia è distante due chilometri da qui” dico a mio figlio mentre parcheggio lungo una laterale di Viale Kant. “Quanti sono due chilometri?” mi chiede. Ce li dobbiamo fare a piedi, per questo lo vuole sapere. Gli spiego che è più o meno la strada che facciamo per arrivare al forno vicino casa nostra.
Sono le quattro del pomeriggio. Sentiamo la musica della Murga. La parata è iniziata in orario. C’è una parte degli artisti di Circocentrica, la convention che organizzano alla Torre, un centro sociale autogestito dal ’94. Oltre a quelli della Murga ci sono giocolieri e clown. C’è anche uno sputafuoco, ma non sputa benzina. Sputa l’acqua. E non la sputa sul fuoco, ma su un mazzetto di fiori. Insomma li annaffia, ma lo fa con la tecnica, la concentrazione e la serietà di un vero fachiro.
È una piccola parata molto colorata. Gli unici neri sono i poliziotti in fondo al corteo. Loro sono più seri di tutti. Più seri del finto sputafuoco. A cosa pensano? Ragionano sull’inutilità della tenuta antisommossa in mezzo a un centinaio di persone colorate che ballano e fanno girare clave e palline? Gli scoccia di passare il sabato pomeriggio a passeggio tra le strade vuote di un quartiere dormitorio? Qualcuno c’ha la fidanzata o la moglie e magari anche i figli e magari pensa che se non dovesse stare lì per lavoro anche lui ci sarebbe venuto in ciabatte e canottiera con i bambini. Qualcuno è solo, i genitori in Sicilia o in Friuli, gli unici amici sono quelli un po’ finti che ti fai a lavoro e che sopporti solo a mensa o davanti a una birra al bar se c’è da scambiare due parole sul campionato. Qualcuno non ce la fa più a fare questo mestiere. A qualcuno piace davvero e ha indossato la divisa con un sincero sentimento patriottico. A qualcun altro piace menare. Magari non cerca lo scontro, ma appena vede le prime scintille di una rissa si prepara come il nuotatore sul blocco di partenza. E visto che la parata è colorata e rumorosa, ma indiscutibilmente pacifica, quello si sta annoiando. Come Il giovane Trotta nella ne La Marcia di Radetzky, il soldato che si sente inutile senza una guerra da combattere. Qualcuno invece è contento perché del suo lavoro ama la parte scenografica come l’imperatore Francesco Giuseppe che va alle grandi manovre. Le preferisce alle guerre perché sa che quest’ultime si possono perdere.
Alle finestre dei palazzoni s’affaccia un sacco di gente. La riconosco. È uguale a quella che sta nella mia borgata. Sono persone abituate ad uscire poco, perennemente vestite da casa. I maschi: pantaloncini e canottiera. Le femmine: una vestaglia coi bottoni davanti. Ci si veste per andare al supermercato, a scuola e a lavoro…quando c’è un lavoro. Però applaudono, fanno le foto col telefonino. S’affacciano, guardano, poi rientrano per portare fuori qualche familiare.
Il quartiere finisce con un palazzone semicircolare affacciato su un grande prato. La finocchiella è alta quasi quanto mio figlio che si mette a strapparne i fiori per fare un mazzetto. C’è un profumo incredibile di mentuccia. Raccoglie anche quella. Lo sputafuoco continua a innaffiare i suoi fiori, un altro clown gira con un carretto attaccato alla bicicletta e spara bolle di sapone. In lontananza, da solo in mezzo al pratone, un giocoliere fa girare le palline correndo sul monociclo. E sopra a tutti noi c’è un enorme mucchio di palloncini colorati tenuti da un filo.
Sarebbe tutto molto divertente e molto naive se il luogo d’arrivo non fosse il muro di recinzione del carcere femminile con maggior numero di detenute a livello nazionale.
Secondo l’Osservatorio dell’associazione Antigone il carcere ne può ospitare meno di 300, ma in realtà ve ne sono quasi 400. Più di 80 sono in attesa di giudizio, un centinaio sono tossicodipendenti o alcoldipendenti, la metà sono straniere. I reati più comuni sono quelli legati alle tossicodipendenze e sfruttamento della prostituzione. 
Stanno in 4 o 5 dentro camerotti di 12 metri quadrati, in 2 e alle volte anche da sole in celle di 8 metri quadrati. Metrature nelle quali sono compresi anche il water e il lavandino, separati alle volte da un muro, altre volte da un separè di legno. Come in molti altri istituti il personale è insufficiente e gli educatori sono pochissimi.
Le donne rinchiuse guardano attraverso le sbarre togliendo i panni stesi ad asciugare sul ferro. Applaudono come quelli che abitano nei palazzoni di Casal De’ Pazzi, ma di loro non vediamo i vestiti e a mala pena si intravedono facce e braccia. 
“Speriamo di non rivederci il prossimo anno” strilla un giocoliere.
Per un po’ restiamo lì a suonare, a far girare le clave e i cerchi, a ballare, ma soprattutto a guardare verso la parete del lungo edificio, un rettangolo rosso sul quale sono ritagliate le finestre sbarrate.
Qualcuno dirà che se stanno lì dentro c’è un motivo, che invece di parlare del detenuto bisogna parlare delle loro vittime. Rispetto alle straniere c’è più d’uno che vorrebbe rimandarle a casa loro e addirittura il ministro Alfano ha proposto di far pagare vitto e alloggio ai paesi d’origine. Si potrebbe rispondere che molti stranieri non hanno un paese che può essere considerato un vero e proprio stato, come per esempio la Somalia. Scappano da paesi in guerra, arrivati in Italia vengono sfruttati e trovano opportunità affidandosi alla criminalità organizzata. Si potrebbe dire che il lavoro in carcere (che è sempre più raro e per il quale sono sottopagati) sarebbe un’ottima maniera per facilitare un percorso di riabilitazione. Che nel paese della mafia e della Camorra gli omicidi volontari sono circa 500 l’anno. Ma questo è un dato che deve essere confrontato con altri. Nel 1948 sono stati circa 3000. Il numero s’è abbassato e rialzato fino agli anni ’80, poi nel 2000 è sceso sotto i mille e ora s’è dimezzato. È cresciuta la disinformazione e il giustizialismo, i partiti hanno usato la paura per ottenere voti, i giornali l’hanno alimentata con campagne allarmistiche. La verità è che la grande maggioranza dei reati sono di entità minima e spesso legati a leggi recenti e discutibili.
Ma ieri pomeriggio tutte queste cose non l’ho pensate. Guardavo la recinzione di ferro, il muro di cemento, la facciata rossa e i pezzi di braccia e facce che si sporgevano un poco. Provavo un senso di sconfitta e di impotenza per tutti. Loro dentro e noi fuori.
Poi qualcuno ha fatto un conto alla rovescia e tutti abbiamo lanciato in aria qualcosa, birilli o palle, frasche o rametti, mentre andava in aria anche il grosso mucchio di palloncini colorati. Sono volati verso il carcere passando davanti alle sbarre delle finestre.
“Così tutti quelli che stanno dentro al carcere li vedono. Perché quella là è soltanto una parte, ma ci stanno altre parti” ha detto mio figlio.
Senza suonare e ballare abbiamo riattraversato il campo di finocchiella e mentuccia. I prati di Roma sono pieni di queste piante. C’è anche tanta rughetta e infatti ne abbiamo trovata un po’.
Mio figlio l’ha messa nel suo mazzetto e ce siamo andati via.
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