Sul New York Times del 23 agosto scorso ho letto con attenzione un post di Laura D’Andrea Tyson, opinion leader nel campo delle pari opportunità, ascoltata sia dall’amministrazione Clinton che da quella targata Obama. Ad attrarmi, ovviamente, il titolo: “Giappone: arrivano le donne”. Dopo aver lodato – un po’ superficialmente, oserei dire – il coraggio dell’attuale premier Shinzo Abe e la sua “abenomics” (dal nome del suo sostenitore, si tratta di una serie di iniziative macroeconomiche messe in pratica nella primavera del 2013 allo scopo di sollevare il Giappone dalla decennale depressione economica, ndr) l’autrice annuncia che la “terza freccia”, quella che dovrebbe provocare un maggiore e decisivo coinvolgimento delle donne a tutti i livelli della società, andrà certamente a segno. Ispirandosi a un ben più ponderoso studio (dal titolo interlocutorio “Can women save Japan?”), commissionato dal Fondo monetario internazionale (Fmi) a due autorevoli studiosi, Chad Steinberg e Masato Nakane, l’autrice del blog sostiene che se il Giappone riuscirà a portare il tasso di partecipazione delle donne nel mercato del lavoro al livello medio dei paesi industrializzati, la crescita del Pil potrebbe subire un balzo del 4%. E far ripartire la locomotiva nipponica, inceppata da oltre vent’anni.

Una cosa seria, insomma, che vale la pena approfondire, visto che il Giappone, nell’immaginario (mica tanto) collettivo è sicuramente considerato uno dei Paesi più misogini al mondo, dove le donne (resta poi da vedere come quest’ultime abbiano di fatto saputo reagire creando poderosi, apparentemente invisibili, anticorpi) vengano ancora pesantemente discriminate sia nella famiglia che nella società e soprattutto, nel mercato del lavoro. Un dato recentissimo per tutti: nella classifica stilata dall’Unione parlamentare internazionale a proposito del numero di donne presenti nel rispettivi parlamenti, il Giappone figura al 124° posto, seguito solo da paesi come Yemen, Gabon e Maldive. Persino l’Italia, non certo brillante nel settore delle pari opportunità, sopravanza il Giappone di quasi 100 posizioni. Nonostante le leggi in vigore siano tra le più avanzate e nonostante la magistratura sia sempre più orientata e decisa a punire ogni violazione formalmente denunciata (evento ancora relativamente raro, ma in aumento), chiunque abbia un minimo di conoscenza della società giapponese e del mercato del lavoro, specie nel settore pubblico e in quello delle grandi aziende private, non può non ammettere l’esistenza di enormi discriminazioni sia per quanto riguarda le retribuzioni, sia rispetto alla possibilità di avanzamento in carriera.

Di recente un amico che siede nel consiglio di amministrazione di una joint venture italo-giapponese, mi ha raccontato del suo stupore e di quello di altri stranieri (compresa una donna) quando il presidente, giapponese, ha “bofonchiato”, senza nemmeno alzare gli occhi dalle sue scartoffie, una frase tipo “ma non c’è una donna, a questo tavolo, che che sia in grado di portarci un caffè…” Posso solo immaginare quale sia stata la reazione di tutti quando l’unica donna straniera presente, ha rotto il silenzio dicendo, in perfetto giapponese: “Ci sarei io, ma in genere il caffè me lo faccio portare. Se vuole facciamo una pausa, così si organizza”.

La strisciante e diffusa misoginia che pervade la società giapponese non può essere certo eliminata dalle promesse di un premier o di un partito che, ironicamente, in occasione delle ultime elezioni non è nemmeno riuscito (o meglio, non ha voluto) a candidare un numero sufficiente di donne, finendo per abbassare la già ridottissima quota delle parlamentari all’11% (la proposta di creare delle quote, sia pure appena del 30% è stata più volta rigettata dagli organi dirigenti). Molto di più potrebbero fare alcune riforme “strutturali”: ad esempio l’aumento degli asili nido, la possibilità concreta di conservare il posto di lavoro (oggi garantita solo sulla carta: in realtà oltre l’80% delle donne che si sposano o restano incinta si dimette “volontariamente”), la possibilità di far carriera. Tutte cose che Abe e il suo governo hanno promesso, ma che difficilmente potranno essere realizzate a tempi brevi, come invece sembra stia riuscendo a fare Francois Hollande in Francia, come evidenziato (a pagine 27) dallo studio Fmi sopracitato.

Senza contare che, ammesso e non concesso che le donne, dopo averne pagato i pesantissimi costi sociali rinunciando a sposarsi o a far figli, riescano a diventare manager (solo il 15% per ora ci riesce, nonostante la percentuale di diplomate alla scuola superiore sia oramai simile a quella degli uomini, oltre il 70% e siano più le donne che gli uomini a proseguire fino all’università) finiscono per subire lo stesso trattamento dei colleghi maschi: turni incompatibili con la gestione famigliare, straordinari non pagati, trasferte impossibili, rischio “karoshi” (la morte per super lavoro, ndr).

In realtà, dietro le posticce promesse di Abe e la sua improvvisa, ipocrita e decisamente strumentale scoperta delle donne come “forza trainante” dell’economia ci sono ben altre ragioni, che evidentemente sfuggono all’autrice del blog . Una di queste è il rischio “scomparsa” del Giappone. Il combinato disposto tra calo demografico (la vera ed efficace risposta delle donne a una società che non le rispetta e non le protegge adeguatamente: si rifiutano di far figli e di sposarsi) e tradizionale rifiuto di concepire l’immigrazione come una risorsa anziché un rischio (In Giappone è pressoché impossibile, per una famiglia, ottenere il visto per una collaboratrice domestica o una badante straniera. Viceversa ai nuovi mercanti basta spacciare per “ballerine” o “cantanti” le migliaia di prostitute provenienti dal sud est asiatico per ottenere un visto di lavoro) sta “uccidendo” il Giappone. Prima nello spirito, poi, e le proiezioni parlano chiaro, come nazione. Il Giappone è il Paese che sta invecchiando più in fretta al mondo, e il Fondo monetario internazionale prevede che nel 2050 la forza lavoro in Giappone, che già oggi è di “appena 44 milioni (un terzo della popolazione) si ridurrà di un ulteriore 40%. Questo significa che ogni giapponese che lavora ne dovrà mantenere tre. E vista la tendenza demografica, non c’è “ricambio”, in vista.

E allora più che trovare il modo di “sfruttare” di più le donne – perché alla fine di questo si tratta – i governanti giapponesi dovrebbero far lavorare di meno gli uomini e spalancare le porte all’immigrazione. L’unico modo – è successo in tutti i paesi che hanno subito ondate di immigrazione, Italia compresa – per garantire non solo crescita economica, ma anche culturale.

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