«All’inizio mi sono trovato con due tipi: uno basso e tarchiato, uno lungo e allampanato. Quello basso era solerte e silenzioso, quello alto selvatico e ciarliero. Quello basso lavorava; quello alto mi faceva da guardia del corpo. Appiccicato costantemente. Un vulcano di domande: chi ero, cosa volevo fare lì, se lo trovavo brutto, se lo trovavo simpatico». Siamo a Palazzolo dello Stella, in provincia di Udine, in piena Bassa Friulana. Stefano Montello è agricoltore da oltre 30 anni, quando, nel 2010, bussano alla sua porta per chiedergli un cambio di vita: che ne dici di venire a gestire una “fattoria sociale”? La risposta è sì. Così nel 2011 gli vengono assegnati nel territorio dell’azienda agricola Volpares un piano terra di una casa da ristrutturare «che da subito, in quella nebbia di gennaio, mi ricordò più una casa degli spettri», un pezzo di terra da coltivare «dove, nel fosso attiguo, arrivava l’acqua solo quando pioveva ed era talmente fuori mano che i cinghiali e i caprioli banchettavano indisturbati con le nostre verdure» e infine i due ragazzi di cui sopra.

Inizia così l’esperimento di agricoltura sociale della Fattoria Volpares voluto dall’Azienda per i Servizi Sanitari n°5 “Bassa Friulana”, dall’Ambito Sociosanitario di Latisana, dal Comune di Palazzolo dello Stella, dall’Ersagricola Spa e dal Consorzio di Cooperative Sociali Il Mosaico. Montello si ritrova a lavorare la terra e ad accudire gli animali con una squadra alquanto variegata: c’è l’ex alcolizzato spedito lì dal Sert, il giovane con disabilità, il signore con problemi psichiatrici. Tutti insieme, con un’unica regola: «Non siamo qui per cazzeggiare. In fattoria si lavora» parla schietto Montello. «Loro si prendono cura della fattoria e allo stesso tempo la fattoria si prende cura di loro, in un circolo virtuoso che funziona».

Montello è contadino e musicista (chitarrista, tra gli altri, dello storico gruppo friulano Flk ed esperto di villotte friulane): l’esperienza di agricoltore ha fatto una parte e la sensibilità di artista ha fatto il resto. «Non sono psicologo né educatore, tutto quello che faccio è insegnare loro il mestiere e la cultura della buona convivenza» dice «e non sono nemmeno il padrone: senza il loro lavoro la fattoria non sta in piedi». Oggi quelle braccia lavorano quattro ettari e mezzo di terra, di cui uno e mezzo di seminativi, uno e mezzo di orto, compresi mille metri di serre coperte, e un altro ettaro e mezzo con mille piante di melograni. «Qui l’obiettivo non è di fare profitto, ma di mettere queste persone in condizioni di stare bene o, almeno, di stare meglio di prima. E magari anche – burocrazia permettendo – di farle rientrare nel mondo del lavoro una volta terminato il progetto» spiega. «Li chiamano “soggetti fragili”, “svantaggiati”. Ma queste persone hanno un nome, come tutti. Senza il nostro nome siamo condannati, non solo all’anonimato, ma alla clandestinità. E molti di loro, fuori dai confini delle fattorie sociali, sono dei clandestini senza nome».

Ad oggi in fattoria sono passate circa una ventina di persone, e tutte se ne sono andate un po’ diverse, forse migliori: «C’è quello un po’ chiuso, che parlava pochissimo e se ne stava in disparte, che ora arriva al mattino, sa già quel che deve fare e lo fa bene, con passione. Parla sempre poco, ma adesso qualche volta ride. C’è quello che si impossessa del trattorino e da lì sopra si dà la stessa importanza di Lawrence D’Arabia sul suo cammello. C’è quello che ripete sempre le stesse cose, che a volte avresti voglia di dirgli “ok ma adesso dimmi qualcos’altro”, che poi alla sera ti manda un sms con scritto “vi voglio bene”. E poi c’è quello che entra nell’orto in punta di piedi, come fosse un luogo sacro. E in fondo lo è: la parola cultura e la parola coltura hanno la stessa radice. Che poi è la stessa della parola culto». I prodotti dell’orto sono più buoni a Volpares perché sanno di quella «sana follia che portano con sé i semi-clandestini come noi» e perché «non si tratta più di parlare di affascinanti, benedetti e un po’ generici “progetti di inclusione”. Qui si tratta di diritto di cittadinanza e, di conseguenza, di democrazia».

Foto: Luca D’Agostino/Phocus Agency

di Natascia Gargano

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