Tutto rimandato a dopo il voto. Unione bancaria, nuove regole per l’euro, tassa sulle transazioni finanziarie, riduzione delle emissioni del settore automobilistico e perfino decisioni di politica estera, come l’eventuale ingresso della Serbia nell’Unione Europea. Non si muoverà nulla almeno fino a domenica 22 settembre, la data fatidica delle elezioni federali tedesche, che vedranno contrapporsi il cancelliere uscente Angela Merkel e lo sfidante Peer Steinbrück, candidato socialdemocratico della Spd. I sondaggi dicono da tempo che tra i due non ci sarà partita. Nell’ultima rilevazione di Forsa (3 luglio), la Cdu/Csu di Merkel guida con il 41%, mentre la Spd si ferma al 22%. Ma gli attuali alleati dei cristiano-democratici nella coalizione di governo, i liberali della Fdp, boccheggiano attorno alla soglia di sbarramento del 5% e rischiano di rimanere fuori dai giochi. Se ce la dovessero fare ma con un risultato deludente, i seggi potrebbero non bastare per formare una maggioranza Cdu-Fdp e Angela Merkel dovrebbe comunque cercare il sostegno degli avversari socialdemocratici o dei verdi. Un’eventualità che la Cdu vuole evitare a tutti i costi che impone cautela nella campagna elettorale, dove le parole vengono sempre più misurate, le decisioni politiche diluite e i temi europei spostati al dopo voto per evitare spiacevoli interferenze con le aspettative degli elettori moderati.

Non è un caso che anche sul fronte italiano il neo-premier Enrico Letta abbia scelto di temporeggiare su Imu, Iva e tagli alla spesa pubblica. Per motivi di politica interna, certamente, ma anche perché, dopo la campagna elettorale, Merkel potrebbe avere le mani più libere per concedere maggiore respiro ai paesi europei in difficoltà, allentando la pressione dell’austerity. Un’eventuale coalizione senza liberali (e quindi con i Verdi o la Spd) potrebbe rendere ancora più probabili eventuali aperture tedesche verso i paesi del sud Europa, aprendo la strada a nuove forme di intervento. Quindi tanto vale aspettare, anche se, per ora, si parla solo di ipotesi e desideri che per concretizzarsi avranno bisogno di prospettive temporali più lunghe, ben oltre la fine di settembre. A contare intanto sono i fatti, che parlano molto chiaro: sull’Europa la Germania nelle prossime dieci settimane non si muoverà. A partire dall’unione bancaria. L’accordo che si è raggiunto nei giorni scorsi è stato sicuramente un primo passo avanti, ma le nuove regole non saranno operative prima del 2018 e il tetto a disposizione del fondo salva-stati Esm per ricapitalizzare le banche (60 miliardi di euro) continuerà a essere inadeguato rispetto alle potenziali perdite delle banche europee.

Freno a mano tirato anche sul capitolo Tobin tax, la tassa sulle transazioni finanziarie. Angela Merkel e la Spd sono sostanzialmente sulla stessa linea e da tempo sostengono l’introduzione dell’imposta. Ma i liberali della Fdp – potenziali futuri alleati di un nuovo governo Merkel – appaiono decisamente più scettici. Già a febbraio il deputato della Fdp Volker Wissing aveva espresso le sue perplessità in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung evidenziando il rischio che il peso della tassa potesse essere scaricato sui cittadini. Meglio quindi non disturbare l’alleato in piena campagna elettorale. Le trattative sui dettagli dell’imposta rimangono ancora in alto mare: il Parlamento Ue ha approvato a larga maggioranza una mozione che sollecita gli 11 Paesi della cooperazione rafforzata a introdurre la tassa ipotizzando di includere anche i titoli di Stato che l’Italia vorrebbe esentare a tutti i costi, temendo una ricaduta sullo spread (un timore condiviso da Francia e Spagna). Goldman Sachs, nel frattempo, ha fatto recapitare sulle scrivanie dei ministri finanziari della cooperazione e negli alti uffici della Bce uno studio fortemente allarmistico che ipotizza per le 42 principali banche europee una perdita complessiva di 170 miliardi contro i 34 di costo totale stimati dalla Commissione Ue esprimendo le maggiori preoccupazioni in riferimento agli istituti francesi e tedeschi, seguiti a ruota da quelli di Italia e Spagna.

In Italia, gli attivisti hanno intensificato di recente il pressing su Letta, ma la Tobin tax “tricolore” (vale a dire la prima sperimentazione avviata a marzo), è di fatto bloccata. La prima imposta applicata su azioni e obbligazioni (non sovrane) infatti avrebbe dovuto essere versata a luglio ma il cosiddetto “Decreto del fare” ha imposto una proroga ad ottobre. Dopo il voto tedesco. Non è da meno la politica estera dell’Unione. Martedì 25 giugno il ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle (Fdp) ha dichiarato davanti ai ministri degli esteri dell’Unione europea che, nel 2013, il parlamento tedesco non sosterrà le negoziazioni per l’entrata della Serbia nell’Unione e ha proposto di spostare la discussione al gennaio del 2014, coinvolgendo direttamente i presidenti del consiglio di ogni paese. “A questo punto decida direttamente il Bundestag”, ha dichiarato polemico il ministro degli esteri lussemburghese Jean Asselborn. Nessuna decisione nemmeno sul piano di riduzione delle emissioni di CO2 nell’industria automobilistica, sul quale era stato raggiunto un compromesso a livello europeo. L’intervento all’ultimo momento della Germania ha fatto spostare la decisione alla fine dell’anno perché, ha spiegato Merkel, è necessario “coordinare gli obiettivi di politica ambientale con quelli di politica industriale, che riguardano anche l’occupazione”, in modo che “le norme ambientali non indeboliscano la base industriale del paese”. La Germania, anche in questo caso, ha la precedenza. Almeno fino al 22 settembre. 

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