Un limite culturale? Oppure la difesa della tradizione gastronomica? Provate a chiedere ad un italiano qualsiasi cosa pensa dell’idea di dover mangiare insetti abbastanza frequentemente e consumare i veri “vermicelli” invece delle canoniche strisce di pasta: probabilmente, risponderà con una smorfia di disgusto e vi guarderà con un certo odio. Eppure la settimana scorsa la Fao – Food and Agriculture Organization – ha pubblicato il report Edible, – Future prospects for food and feed security dove pone una questione molto semplice: nel 2050 saremo 9 miliardi, le risorse ittiche già ora scarseggiano, le carni in tempi di crisi sono un miraggio, a volte, anche per i benestanti, la siccità e la crisi hanno depauperato i nostri campi. Quindi la soluzione più efficace e nutriente consiste nell’alimentazione a base di insetti.

Quali? Coleotteri, bruchi, api, vespe e cavallette: in totale si tratta di quasi 1.900 specie. E sono consumati da almeno 2 miliardi di persone. I vantaggi di questa nuova alimentazione sarebbero anche economici: la genesi di nuovi posti di lavoro dati da coloro che allevano le specie di insetti, un tipo di impiego che potrebbe essere svolto anche da singoli individui senza il dispiego di grandi risorse economiche. E dal punto di vista ambientale, l’allevamento di insetti produce meno gas serra di quello, ad esempio, dei bovini e dei maiali.

Da un punto di vista culturale, continua lo studio della Fao, chi vive nell’Africa centrale e nel Sud-Est asiatico è già abituato, mentre gli occidentali dovrebbero essere pian piano educati a questi nuovi consumi alimentari. Tanto che a gennaio scorso l’Unione Europea ha stanziato un finanziamento di 3 milioni di euro per ogni Paese membro che incoraggi l’uso degli insetti in cucina. Insomma, un possibile lieto fine per il problema della fame del mondo.

E invece no. In questi giorni si sono letti molti articoli su questa proposta della Fao, che sicuramente è un’opzione importante da considerare: si sono visti i menu, i vantaggi, le possibilità. Ma bisognerebbe soffermarsi, ad esempio, su quanto dichiara Gao Xiwu, entomologo presso l’Università cinese per l’agricoltura: la Cina, che pure è tradizionalmente uno dei maggiori consumatori di insetti, non è pronta per il consumo di massa di questi animali.

Cosa significa? Che la proposta della Fao ha sicuramente una sua utilità ma serve anche a nascondere un fatto ineccepibile: le istituzioni deputate a combattere la fame nel mondo, che esistono da cinquanta o sessant’anni, hanno clamorosamente fallito. Nel 2006, la Fao ammetteva: l’obiettivo di dimezzare il numero di persone che soffrono la fame entro il 2015 è praticamente irraggiungibile e in dieci anni, in pratica, non è stato fatto alcun progresso verso l’obiettivo di dimezzare il numero di sottoalimentati nel mondo. Bisogna inoltre sottolineare che nel 1990 le persone che soffrivano la fame erano circa 800 milioni: tre anni fa, erano arrivate a 1 miliardo e 20 milioni, il dato più allarmante dal 1970. Quindi il problema è sostanzialmente peggiorato, con un incremento dei malnutriti superiore alla crescita demografica mondiale.

Nessuno dubita che si tratti di funzionari esperti, ma sicuramente organizzazioni come la Fao hanno fallito nei loro obiettivi statutari. Ma forse non hanno avuto la solidità economica per contrastare un problema così grave. Interessante, a tal proposito, la dichiarazione rilasciata sempre nel 2009 da Josette Sheeran, direttrice esecutiva del Programma alimentare mondiale (World Food Program), che lavora a stretto contatto con la Fao: «Sappiamo quello che occorre per coprire le necessità urgenti, quello che serve sono le risorse e l’impegno internazionale per farlo». Ancora?

Una commissione di economisti guidata da Leif Christoffersen e voluta dalla stessa Onu ha accertato che, sempre nel 2009, quando la Sheeran lamentava la necessità di risorse, la Fao avrebbe avuto a disposizione 784 milioni di dollari fino al 2011 per affrontare il problema della fame nel mondo: peccato che solo 90 milioni sono stati iscritti a budget per programmi realmente tesi a risolvere la malnutrizione. Gli altri soldi? Tanto per fare un esempio, 200 milioni sono stati spesi solo per i meeting dei dipendenti dell’organizzazione. Non solo: le tre principali agenzie Onu (diverse dalla Fao) che si occupano di fame nel mondo costavano tre anni fa complessivamente 10 miliardi l’anno. Si tratta di soldi messi dagli Stati membri, e non sono proprio bruscolini. Il risultato più eclatante fino adesso di questo ingente investimento? Alimentare i ricchissimi stipendi dei funzionari delle organizzazioni. Mentre al resto del mondo toccherà cibarsi di cavallette.

di Gianluca Schinaia

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