Goffredo Bettini sta per mandare in libreria una sua riflessione – Carte segrete -, in cui, attraverso un’intervista rilasciata a Carmine Fotia, sigillata da un intervento sull’attualità, riepiloga le tappe di una generazione che, affacciatasi al rinnovamento dei sistemi e dei contenuti della comunicazione politica tradizionale nei primi anni Settanta, ha poi colto, nella Capitale, uno straordinario successo elettorale durante le amministrazioni Rutelli e Veltroni.

Bettini racconta l’incontro con Pasolini, il rapporto con i primi sindaci comunisti di Roma, interrotto dal ritorno di fiamma del pentapartito; gli aspetti psicologici della transizione fra il vecchio Pci e il Pds; la gestazione di un nuovo modello di offerta politica, incarnato da personalità insieme radicali e liberal, cioè capaci di tenere insieme gli elementi propri della cultura di sinistra con un approccio non identitario, ma pragmatico ai grandi temi della società italiana dopo la fine della Prima Repubblica.

Bettini non lo dice esplicitamente, ma l’idea del Pd nasce in quel contesto; matura, cioè, nel momento in cui le appartenenze si sfaldano, la società si fa liquida, la comunità tende all’individualismo spinto. Come reagire? L’autore crede che nella ricostruzione dei processi relazionali e dei legami di fiducia dal basso, perché solo dal ristabilimento di contatti autentici e personali non mediati, ma immediati, può dipendere la disarticolazione di quell’asimmetria informativa che oggi tende a separare la minoranza felicemente globalizzata dalla stragrande maggioranza, che alla globalizzazione accede da spettatrice, talvolta connivente, talvolta vittima.

Certo, il “modello Roma” non è arrivato fin qui (qui arriva, invece, Bettini alla fine del suo libro): il tentativo di modificare l’amministrazione di una grande città europea è stata piuttosto una prova generale, per cercare di ricostituire immagini comuni, idee comuni e non banali sulla realtà urbana. Con successi, fra i quali il ribaltamento della cultura dell’effimero cara alle giunte anni Settanta, e insuccessi, fra i quali la riforma della macchina amministrativa.

A stupire il lettore è la dinamica psicologica di questo straordinario personaggio: Bettini non cela i contraccolpi che il tracciato della vicenda politica hanno avuto sull’esistenza, talvolta dolorosamente; né il divario, spesso incolmabile, fra il progetto di “riforma sociale” immaginato e la realtà materiale degli interessi incontrati lungo la strada. Insomma, alla base si capisce che c’è un’idea del politico come intellettuale, come lettore della trasformazione in atto nel paese e come interprete del cambiamento.

Difficile pensare qualcosa di più lontano dal ceto politico attuale, che persiste a non elaborare visioni dell’Italia e del suo futuro, accontentandosi di utilizzare “parole magiche”: sviluppo, coesione, solidarietà, integrazione… Tutto l’arsenale dei buoni sentimenti, con il quale evitare di declinare e di qualificare la scelta, la decisione. La politica è sempre scelta, spesso dolorosa e quasi mai univoca, unitaria, unanime. E tanto più, poi, in un paese come il nostro, dove i privilegi che bloccano società e macchina pubblica non possono essere sopraffatti se non attraverso un esplicito danneggiamento dei “privilegiati”, in nome di un’apertura al nuovo “Terzo Stato” degli esclusi, dei non garantiti, dei giovani, delle donne, della massa enorme che non intuisce neppure le filiere di potere. Ma le subisce.

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