“Il numero di tizi che si esaltano a offendere su twitter è in continua crescita. Calmi, tra poco ce ne andremo, così v’insulterete tra di voi”.

E’ questo il cinguettio con il quale, ieri, quando erano da poco passate le tredici, Enrico Mentana ha aperto una lunga discussione via Twitter, chiusa poi, poco prima delle venti, con il suo ultimo tweet: “Un saluto finale a tutti”.

Il direttore del Tg di La7 ha così annunciato – o almeno sembra – la propria intenzione di lasciare la popolare piattaforma di socialnetwork.

L’episodio non avrebbe motivo di essere raccontato se il protagonista non fosse uno dei volti noti del giornalismo italiano, i cui cinguettii – per la verità poco più di un migliaio – erano seguiti da oltre 300 mila persone e, soprattutto, se non fosse per le motivazioni che hanno indotto Mentana a smettere di cinguettare online.

La decisione del direttore sta, infatti, tutta, in altri cento quaranta caratteri, dello stesso Mentana: “Resterei se ci fosse almeno un elementare principio d’uguaglianza: l’obbligo di usare la propria vera identità. Strage di ribaldi col nickname”.

E’, dunque, il fatto che, su Twitter, vi siano milioni di persone che cinguettano utilizzando un nickname all’origine della decisione di Mentana di abbandonare la piattaforma di social network. Tutta colpa dell’anonimato o di quello che, il giornalista, chiama – forse facendo un po’ di confusione tra scrivere usando uno pseudonimo e scrivere in forma anonima – “anonimato”.

Il popolare giornalista, d’altra parte, non fa mistero che nel Twitter dei suoi sogni non dovrebbe esserci spazio per cinguettii “anonimi” – nel senso appena chiarito – e a chi gli fa presente che, forse, la possibilità di cinguettare da dietro un pseudonimo consente, a molti, di sentirsi più liberi di manifestare il proprio pensiero, risponde con un cinguettio lapidario: “Curioso: gli argomenti usati dai difensori dell’anonimato su Twitter son gli stessi addotti dai massoni per giustificare le logge coperte…”.

A prescindere dal gesto di Mentana – forse dovuto ad un momento di umana debolezza davanti a qualche tweett-insulto di troppo – la discussione di ieri via Twitter è troppo importante per essere chiusa con qualche cinguettio. Vale quindi la pena di fare un po’ di chiarezza, pur senza nessuna pretesa di proporre verità assolute che non ci sono e non possono esserci dinanzi ad un fenomeno in così rapida evoluzione e con un così rilevante impatto sociale prima ancora che giuridico.

Un primo aspetto da chiarire è che usare un nickname – su Twitter come in qualsiasi altra piattaforma online – è perfettamente legale ed è, anzi, quanto suggerito dai Garanti della Privacy Europei sin dal 2008 e ribadito, più di recente anche dal nostro Garante per il trattamento dei dati personali e la riservatezza. A ciascuno, quindi, scegliere se presentarsi online con il proprio nome e cognome o, invece, usare uno pseudonimo moderno ovvero un nickname, una modalità di “firma” e non di anonimato, diffusa da tempi ben più antichi della Rete.

Completamente diversa, invece, è la questione della legittimità o meno e, soprattutto, dell’opportunità o meno di consentire – ammesso che un eventuale divieto possa essere effettivamente attuato – che chi pubblica un contenuto online si renda completamente irrintracciabile, mascherandosi non già semplicemente dietro ad un nickname ma dietro ad una falsa identità o ad una identità di fantasia.

Nel primo caso, infatti, chi abusi della propria libertà di manifestazione del pensiero, se anche abbia scelto di farlo sotto il nickname di “cavaliere mascherato” è destinato, senza neppure grandi difficoltà, ad essere identificato e chiamato a rispondere del suo abuso mentre, nel secondo, rintracciare online chi ha scelto scientificamente di non essere rintracciabile, potrebbe essere molto difficile ma non necessariamente sempre impossibile.

La regola su Twitter – per stare alla vicenda che ha fatto infuriare Mentana inducendolo ad abbandonare la piattaforma cinguettante – è che si utilizzi un nickname ma che si lasci il proprio indirizzo mail ed una serie di altre informazioni che, ove necessario, consentono all’Autorità di rintracciarci.

E’ ovvio che si può scegliere di lasciare un indirizzo mail a sua volta non riconducibile ad un’identità reale ed aver cura – con una serie di espedienti alla portata se non di tutti dei più – di lasciare poche tracce digitali. Ma da qui a cinguettare – come ha fatto Mentana – che chi difende l’uso di un nickname su Twitter la pensa come i massoni a proposito dei loro elenchi segreti, il passo è davvero lungo.

Quanto al tema dell’anonimato – quello vero – online, è questione straordinariamente complessa.

Sembra, però, opportuno ricordare che, proprio di recente, il Relatore Speciale delle Nazioni Unite per la promozione e tutela della libertà di informazione, in un suo report sulla circolazione dei contenuti violenti online, ha ribadito che tutti gli Stati dovrebbero consentire ai propri cittadini di esprimersi online, protetti dall’anonimato.

Forse la soluzione – da ricercarsi necessariamente a livello globale – potrà, un giorno, essere rappresentata dal ricorso ad una qualche forma di c.d. “anonimato protetto”: libertà di agire online in forma anonima, dopo aver, tuttavia, lasciato da qualche parte la vera identità alla quale, solo le forze dell’ordine, dietro ordine della magistratura e nei soli casi più gravi, potranno accedere.

E’ difficile, d’altra parte, allo stato, ipotizzare una identificazione “forte” degli oltre due miliardi di naviganti del web.

Educazione, cultura, autodisciplina e, soprattutto dialogo e confronto online – come suggerito proprio dal relatore speciale Onu nella sua relazione –  restano, probabilmente, le cure migliori per un male – quello del c.d. hate speech – che innegabilmente esiste ma è, probabilmente, un necessario tributo da pagare a fronte dei tanti effetti positivi in termini democratici sin qui prodotti dalla diffusione di Internet.

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