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Scena I.

Siamo in un grande ospedale romano. Il Policlinico Umberto I. Un’associazione (un paio di anni fa) ci invita a fare una visita nel reparto oncologico infantile. Coinvolgiamo dei clown, degli animatori e andiamo. A parte il fatto che vedere dei bambini malati di tumore spezzerebbe il cuore anche a chi ce l’ha di pietra, ma la cosa sconvolgente era la condizione dello stesso reparto. Una catapecchia. Un bambino, appena operato, aveva bisogno di stare in una camera asettica. La porta era rotta e i genitori facevano i turni – seduti su una sedia – per tenerla chiusa con una mano. Non stiamo parlando di un ospedale del terzo mondo ma di un ospedale al centro di Roma. Uno dei più grandi. I dottori, gli infermieri, i volontari avevano cercato di rendere meno drammatica la permanenza per bambini e genitori. Avevano dipinto personaggi dei cartoni animati alle pareti, portavano giochi e materiale da casa perché “il budget non ce lo permette”.

Scena II.

La settimana scorsa vado a fare un’analisi un po’ complicata all’ospedale Gemelli, sempre di Roma. Il reparto in cui mi reco è nuovo. Il personale medico e paramedico è commovente per disponibilità e professionalità. Ti ascoltano, prima di tutto. Ti tranquillizzano. Ti consigliano. Ti seguono passo passo. Anche loro mi spiegano che devono fare i salti mortali. Non hanno soldi, per dire, per comprare un farmaco di pronto intervento per i cardiopatici.

I due ospedali distano pochi chilometri.

Cerco di capire come possano esserci così tante differenze.

La cronaca, purtroppo, ci ha insegnato che la sanità è il capitolo dove è molto facile fare affari d’oro (illeciti) sulle spalle di chi sta male. Bilanci gonfiati, truffe, appalti ad amici e parenti, tangenti. A tutti noi è capitato di dire, o sentirsi dire, “la sanità italiana fa schifo”.

Osiamo, se davvero vogliamo innescare una rivoluzione in questo Paese, un salto di qualità. Diciamo: “Quel tale reparto di quell’ospedale non funziona”. Basta con il tuttobrutto. Cresciamo come cittadini. Maturiamo.

La scuola non funziona. Falso. Non tutta. I miei due figli hanno delle insegnanti (alla scuola pubblica) eccellenti. Certo, l’edificio non sarà all’altezza delle tante scuole private a Roma, ma chissenefrega.

Lancio un’idea: in alcune aziende private esiste il “mistery client”. Un dipendente che si presenta presso i punti vendita come se fosse un normale acquirente. Poi stila una relazione: se l’esercizio non risponde alle aspettative che l’azienda si è posta, si prendono provvedimenti. In alcuni casi il responsabile viene rimosso.

Non si può fare anche nel pubblico? Non parlo di ispettori (il più delle volte ampiamente annunciati), ma di persone normali, che utilizzano le strutture pubbliche come ciascuno di noi.

La famosa “spending review” con i tagli orizzontali, mi terrorizza. Mi dà l’idea del contadino che, vedendo un ramo appassito, abbatte tutto l’albero.

Vogliamo ripartire? Ripartiamo dal merito. Esistono siti per certificare la soddisfazione dei clienti per alberghi, ristoranti, teatri, cinema. Non si può fare anche per i servizi forniti dallo Stato? Non le “faccette” volute da Brunetta. Una vera e propria recensione circostanziata.

Se una struttura pubblica funziona, facciamola vivere. Dirò di più: raddoppiamo il budget e lo stipendio a un dottore, un infermiere, una maestra, un dipendente pubblico, un poliziotto e – perché no? – a un politico, se svolge egregiamente i suo lavoro.

Insomma, il “tutto fa schifo”, mi sembra giochi a solo vantaggio di chi schifo lo fa davvero.
 

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