Conobbi Rafael Correa, da poco eletto presidente dell’Ecuador, all’aeroporto di Cochabamba in Bolivia nel dicembre 2006. Avevo partecipato a un evento collaterale al vertice dei presidenti sudamericani (Unasur) dove avevo svolto un parallelo e un confronto fra i processi di integrazione regionale in Europa e in America Latina. Stavo facendo la fila al check-in in compagnia di due deputate salvadoregne, già comandanti guerrigliere del Frente Farabundo Martì, quando passò Correa e gli facemmo un applauso. Lui si fermò e ci chiese da dove venissimo. Lo salutammo e gli augurammo buon lavoro.

Lo rividi nel novembre 2008 a Quito, in occasione della presentazione del Rapporto finale della Commissione di indagine sul debito estero, cui avevo avuto occasione di collaborare. Un lavoro davvero importante ed esemplare, grazie al quale finalmente è stata fatta chiarezza su un debito estero enorme, frutto di vari raggiri e conflitti d’interessi. Un’operazione analoga di trasparenza effettiva andrebbe fatta sul debito pubblico italiano e di tanti altri Paesi, ma il governo dell’Ecuador è finora stato l’unico a realizzare questa attività indispensabile. Utile anche a ridurre di molto l’entità del fardello debitorio, recuperando risorse sottratte alla vorace finanza e investite in servizi sociali, sviluppo economico e benessere del popolo.

In effetti, con Correa presidente, il denaro è andato a finire dalla parte giusta. Le cifre parlano da sole: la povertà è stata ridotta del 12%, aumentate le tasse nei confronti delle imprese multinazionali, incrementati gli investimenti in salute, istruzione e cultura. Risultati riconosciuti dal popolo ecuadoriano che domenica, a grande maggioranza, ha confermato la sua fiducia nei confronti di Correa.

Per certi commentatori sono democratici solo quelli che sono “omogenei” all’Occidente, ovvero possono vantare servilismo nei confronti delle potenze dominanti e dei poteri finanziari (e autoritarismo nei confronti dei propri popoli). Tutti gli altri sono pericolosi populisti, dittatori mascherati, ecc. Solo chi prende ordini dalle istituzioni finanziarie internazionali, secondo i pennivendoli di casa nostra, può essere definito democratico a tutti gli effetti. Ma questa genia, che ha fatto danni e disastri negli anni passati, è fortunatamente in via di estinzione in America Latina, tanto è vero che non corrispondono più pienamente a questi connotati neanche presidenti di destra come il colombiano Santos e il cileno Piñera. E Correa è parte integrante, anzi uno dei protagonisti, di questa lunga primavera latinoamericana, tanto è vero che ha voluto dedicare la sua vittoria al comandante Chavez, che nel frattempo sta meglio ed è tornato in Venezuela, dove gode del 70% dei consensi e speriamo possa godere di lunga e fattiva vita alla faccia dei menagramo.

Sfogliando un libro di storia, qualche giorno fa, sono stato colpito da un’analogia. Intorno al 1820, mentre in Europa infuriava la restaurazione monarchica guidata dalla Santa Alleanza, in America Latina Simon Bolivar e altri combattevano per l’indipendenza. Oggi, a due secoli quasi di distanza, in America Latina sono poste le nuove frontiere dell’umanità in lotta contro il neoliberismo e il mercantilismo sfrenato, mentre l’Europa si dibatte in una profonda crisi di prospettiva dovuta in buona parte al prevalere di ideologie oramai stantie, espressione solo del potere prevaricatore e paralizzante delle oligarchie finanziarie. Solo liberandosi di questo potere sarà possibile restituire un futuro ai nostri Paesi, nell’interesse dei giovani e delle future generazioni.

Quindi per molti aspetti va seguito l’esempio dell’America Latina. Un’altra analogia degna di nota è, a tale riguardo quella tra il partito di Correa, che si chiama Rivoluzione Cittadina, e la coalizione capeggiata da Antonio Ingroia, che si chiama Rivoluzione Civile. Due elementi in comune: il riferimento alla necessità di una trasformazione sociale profonda e il richiamo alla cittadinanza, al protagonismo dal basso, al potere di tutti quelli che sono senza potere e senza diritti, ma sarebbe ora che si svegliassero anche qui da noi. 

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