Giampaolo Pansa? “Un pazzo, un mascalzone, un falsario, un mentitore”. Così Giorgio Bocca definì, censurandone indignato “Il sangue dei vinti“, libro “vergognoso di un voltagabbana”. La ferocia del giudizio di Bocca appare perfettamente giustificata dai comportamenti del noto giornalista, passato dalle cronache civili della gioventù, ai pezzi di colore della maturità, alla militanza editoriale revisionista e filo-neofascista del triste e penoso tramonto, che lo ha portato a condividere su Libero il giornalismo trash della destra sfascista e berlusconiana. Ma più che dalla pazzia, i comportamenti di Pansa – che per Bocca si trasformano in mascalzonate, falsità e menzogne – sembrerebbero motivati da puerilità, senso di inadeguatezza, invidia e astio.

A farne le spese non sono stati solo fatti alti come la Resistenza e un gigante del giornalismo come Bocca o, come è pure successo, il gruppo editoriale di Scalfari e Caracciolo, colpevoli di non aver mai affidato una propria testata alla direzione di una “grande firma” capace di scrivere pezzi brillanti ma totalmente inadeguato alla guida di un desk complesso come quello di un quotidiano o di un settimanale. Pansa, con un cinismo che solo la superficialità può consentire, non si perita di travolgere con le sue battute e le sue ricostruzioni addomesticate l’onore e la vita di chiunque capiti sotto la sua penna.

Così, dopo 27 anni, continua imperterrito a ripetere, con le stesse parole, una storiellina diffamatoria che mi riguarda e che invece dipinge perfettamente il personaggio-Pansa, mentitore anche con se stesso. Infatti, venerdì scorso, 8 febbraio 2013, Libero ha pubblicato un’anticipazione del suo nuovo libro, “La Repubblica di Barbapapà” (Rizzoli), in cui racconta vittimisticamente, fra l’altro, come “Repubblica mi fece la guerra”. Ad un certo punto, essendo io colpevole solo di aver fatto la nota intervista in cui Bocca lo descrive e lo chiama pazzo, mascalzone, falsario e mentitore, fa questo inciso: “Lopez era un ex di Repubblica. Nel 2003 aveva 56 anni ed era stato nella squadra arruolata da Scalfari per fondare il quotidiano. Si occupava di politica interna ed era scivolato su un brutto errore. Ci aveva consegnato un’intervista al segretario socialdemocratico, Pietro Longo, che in realtà non aveva mai fatto. La pubblicammo e successe quello che era facile immaginare”.

Ventisette anni fa, nel 1986, aveva scritto la stessa cosa, quasi con le stesse parole, nel bestseller “Carte false” (Rizzoli): “… Ma l’esempio più assurdo d’invenzione totale è toccato metterlo in pagina a me, su Repubblica, un po’ di anni fa: un’intervista a Pietro Longo, da poco segretario del Psdi. Buona, densa, vivace, abbastanza lunga. Però mai data. Falsa dalla prima riga all’ultima. Dico il peccato e non il peccatore, perché ormai l’inventore sta in un altro giornale. Ma mi chiedo ancora oggi: mio dio, falsificare persino Longo?”. astio

Sette anni fa, nel 2003, aveva astiosamente fatto riferimento allo stesso episodio nel libro “La grande bugia: le sinistre italiane e il sangue dei vinti (Sperling & Kupfer): “Curzi fece intervistare Giorgio Bocca da un redattore, Beppe Lopez. Conoscevo bene anche lui. Aveva lavorato a Repubblica senza molto successo, poi se ne era andato chissà dove. Lopez non ebbe bisogno di sollecitare l’Uomo di Cuneo, prontissimo a una seconda fucilazione alla schiena del sottoscritto”.

Carte false, Grande bugia: lasciamo agli psicanalisti l’esame di questo tic di attribuire sistematicamente agli altri ciò che più o meno vagamente si sa di sé. Nella ricostruzione di quel piccolo, lontano episodio (dicembre 1978) ossessivamente ripetuta da Pansa, c’è una sola cosa vera: che a “mettere in pagina” quell'”intervista” a Pietro Longo – “buona, densa, vivace”, da me firmata – fu effettivamente Pansa.

In effetti l’autore del pezzo “non aveva mai fatto” quell’intervista. Il suo era un onesto pezzo di ricostruzione del pensiero e delle dichiarazioni degli allora dirigenti del Psdi Longo e Di Giesi. L’autore del “brutto errore” di mettere la parola “intervista” nell’occhiellino del titolo a quell’intervista, il “falsificatore”, indovinate chi fu? Fu proprio lui, il mettitore in pagina, l’allora vice-direttore di Repubblica che studiava vanamente da direttore. Nonostante le mie rimostranze, Pansa volle a tutti i costi mettere quella parolina, “intervista”, nel titolo più correttamente da me predisposto, rendendo lui “falsa dalla prima riga all’ultima” un’intervista che invece voleva essere ed era solo un pezzo di ricostruzione. Questo consentì il giorno dopo a Longo non di smentire il pensiero e le parole da me attribuitegli (peraltro assai imbarazzanti per lui, perché mal digerite dal suo “capo” ed ex presidente della Repubblica Saragat) ma di smentire di avermi quell'”intervista”, come pretendeva la parolina stupidamente e gratuitamente voluta dal neofita del desk Giampaolo Pansa.

Ogni commenti è a questo punto inutile. Quando il cinismo e l’irresponsabilità arriva al punto di fare carte false su un episodio minore, da ridicolizzare persino (“Mio dio, falsificare persino Longo?”), pur essendone stato il protagonista inequivocabile, e capovolgendone dinamica e responsabilità, anche solo per occupare 13 righe di un libro di 261 pagine, c’è poco da dire. Ma se si aggiunge a questo che, dopo quasi un trentennio, si ripete la stessa cosa, allora vuol dire che la parola passa, se possibile, alla magistratura ma indubbiamente e più proficuamente allo psichiatra. E così si torna al “pazzo!” di Bocca.

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