Manifestare per la libertà d’espressione in un paese totalitario rappresenta un ossimoro “interessante”. E lo è tanto più in Cina, nel delicato passaggio tra la quarta e la quinta generazione di leader che prenderà effettivamente il potere a marzo prossimo con l’incoronazione ufficiale di Xi Jinping a presidente della Repubblica popolare. Tutto è cominciato con l’editoriale di capodanno del settimanale Nanfang Zhoumo, una delle testate in lingua cinese più libere, nota soprattutto per i suoi articoli di approfondimento sempre sul filo della censura e spesso slegati dalla propaganda di partito.  

L’editoriale in questione giocava sul “sogno cinese”, uno slogan inaugurato proprio dal futuro presidente volto a sottolineare la crescita del Paese e quasi a volerlo confrontare con gli Stati Uniti. Ma tra il sogno cinese e quello americano ci sono alcune differenze sostanziali. Così l’editoriale della redazione del settimanale titolava ironicamente con il “sogno del costituzionalismo” e, auspicando rispetto della costituzione e aperture democratiche, sosteneva che “solo così sarà possibile costruire una nazione forte e libera”.  

Ma questo editoriale è stato riscritto, plaudendo le politiche del Partito comunista, addirittura da Tuo Zheng, capo del dipartimento della propaganda della regione che fino ad oggi è stata considerata la più liberale della Cina, il Guangdong. Nel panorama dell’informazione asservita agli interessi del Partito comunista (o alle masse come si è sempre giustificato) può succedere, anche se è molto più frequente che siano gli stessi giornalisti e i capiredattori ad applicare autonomamente l’autocensura al proprio lavoro. Quello che stupisce è la coraggiosa reazione di 35 giornalisti del Nanfang Zhoumo che in una lettera aperta fatta circolare il 4 gennaio su Sina Weibo, il microblog più diffuso nella Repubblica popolare, definivano l’intervento di Tuo “un gesto eccessivo e ignorante” e per questo ne chiedevano le dimissioni. Due giorni dopo, sull’account ufficiale del settimanale, è comparso un messaggio che sosteneva che l’editoriale incriminato fosse opera della redazione. Immediata la smentita dei redattori stessi, che hanno denunciato un’intrusione nell’account da loro curato.  

Dopo una decade di inerzia politica e con la speranza che la nuova leadership avrebbe portato avanti le riforme di cui il paese ha bisogno e avrebbe ricostruito la credibilità della classe dirigente, l’alzata di testa dei giornalisti ha fatto traboccare il vaso delle frustrazioni e dei troppi bocconi amari ingoiati. Giornalisti, opinionisti, gente comune, internauti e professori hanno espresso prima in rete e poi in piazza la solidarietà alla redazione del Nanfang Zhoumo. Tra domenica e lunedì gran parte della redazione è entrata in sciopero, mentre fuori dai suoi cancelli si radunava una folla che li sosteneva. “Ieri sera ero online, oggi sono in piazza” è stato uno degli slogan più riusciti.

Infatti, come sempre più spesso accade nell’epoca del web 2.0, è stato soprattutto il supporto online che ha permesso che la vicenda non venisse “armonizzata”. E questa volta non solo i singoli – che in migliaia hanno twittato messaggi di solidarietà al settimanale e si sono fotografati a volto scoperto – ma anche i maggiori portali internet sembrano appoggiare silenziosamente la protesta. Ne è dimostrazione evidente l’homepage del portale di informazione Sina. Oggi il sito presenta le notizie in un ordine tale che gli strilli, se letti in verticale, formano il nome del coraggioso settimanale “Nanfang Zhoumo”. L’Ap cita un redattore della testata incriminata che ha confessato con il vincolo dell’anonimato che all’interno del giornale è in corso una trattativa con il dipartimento di propaganda: i redattori riprenderanno a lavorare solo se gli sarà permesso di spiegare l’incresciosa vicenda sulle pagine del settimanale. Una posizione che la dirigenza farà fatica ad accettare.

Nel frattempo, oggi, nel secondo giorno di manifestazioni, all’ingresso della redazione la situazione è ben più tesa. Ci sono assembramenti costituiti da tutt’altro genere di manifestanti: manifesti di Mao Zedong e slogan che denunciano il Nanfang Zhoumo come un “giornale traditore”. Ovviamente ci sono stati tafferugli e ovviamente la polizia si è trovata a dover intervenire. Ma nonostante pare abbia chiamato molti dei manifestanti per un interrogatorio, il sit in non è stato sciolto. L’inasprimento della situazione è chiaro. E gira voce che anche se i giornalisti sono in sciopero da domenica, giovedì il giornale uscirà egualmente, magari utilizzando articoli apparsi su altre testate dello stesso gruppo editoriale.

Il punto è cruciale ed è evidenza ancora una volta dell’abisso che nella Cina comunista del terzo millennio separa in maniera definitiva masse e funzionari. Se nelle alte sfere è ancora opinione condivisa che il controllo dei media sia un diritto irrinunciabile del Partito, la nuova società civile e la sempre più acculturata (e scontenta) classe media non è affatto d’accordo. La bellissima attrice Yao Chen, che con i suoi 31 milioni di follower è forse il personaggio pubblico più seguito del pianeta, ha diffuso il tweet più significativo. E non ha fatto altro che citare Aleksandr Solzhenitsyn, il dissidente russo: “Una parola di verità è più pesante del mondo intero.”

di Cecilia Attanasio Ghezzi 

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