Si è spento questa mattina nella sua Vaiano, a quasi novantadue anni, Fiorenzo Magni: grande interprete di un ciclismo eroico e antico, dove si faticava e si pedalava sempre più veloce per distanziare la fame e la miseria di un’Italia distrutta dal fascismo e dalla guerra. Nei suoi soprannomi, la sua storia. Magni è il Leone delle Fiandre, a ricordare la sua mitica tripletta nella grande classica del nord. In un albo d’oro che vedeva solo bandiere nero-giallo-rosse, Magni riuscì a imporre il tricolore tre volte consecutivamente, dal 1949 al 1951: ancora oggi un record ineguagliato. Tre sono anche i Giri d’Italia conquistati (nel 1948, nel 1951 e nel 1955), l’ultimo alla soglia dei 35 anni. Un numero ricorrente il tre, perché Magni è soprattutto ‘il terzo uomo’, dal nome del film capolavoro con Orson Welles uscito proprio nell’anno in cui Magni vinceva il suo primo Fiandre.

Il terzo uomo. Il terzo incomodo appena dietro, o al fianco, dei due mammasantissima Fausto Coppi e Gino Bartali, che in quegli anni segnavano l’immaginario del paese che cercava il riscatto sui pedali. Come ha scritto Sergio Zavoli nella prefazione di un libro che ne racconta la storia, e intitolato appunto ‘Il Terzo Uomo’: “Fiorenzo Magni ebbe dalla sua la ventura di non somigliare né a Coppi né a Bartali, e quindi di essere pari a loro per prestigio e popolarità, ma con una personalità anche agonistica, che per qualche verso addirittura sopravanzava i suoi due primari rivali”. E proprio a causa di Bartali, o meglio a un episodio che lo vide protagonista, Magni non riuscì a vincere il Tour de France, che nel 1950 lo vedeva saldamente in maglia gialla dopo 12 tappe.

Ma ci fu la famosa tappa del Col d’Aspin, dove un gruppo di sostenitori francesi attaccò Bartali e costrinse l’intera delegazione italiana a ritirarsi sdegnata. E Magni ad abbandonare i sogni di gloria della Grande Boucle. Secondo arrivò anche al Giro d’Italia del 1956, quando gli anni oramai erano 36 e quando sugli Appennini bolognesi cadde rompendosi una clavicola. Indomito, strinse tra i denti un tubolare per lenire il dolore e terminò la tappa e poi il Giro, senza vincerlo ma entrando definitivamente nella storia e consegnando un’immagine di fatica e disciplina che ben rappresenta il ciclismo dei tempi. Con il calcio ancora relegato a sport minore, e il ciclismo in prima pagina, l’Italia che si divideva tra DC e PCI, tra Don Camillo e Peppone, trovava nello sport la sua rivalità, il suo derby degli schieramenti e delle polemiche, nelle figure di Coppi e Bartali. Magni fu il terzo incomodo anche qui.

La sua scelta di aderire in gioventù alla Repubblica Sociale, tuttavia, gli precluse a lungo l’affetto e il sostegno degli appassionati e del grande pubblico, che preferirono rivolgersi agli altri due contendenti. Perché Magni non si limitò a un generico sostegno alle ultime fasi della dittatura fascista, ma prese parte attiva al massacro di partigiani di Valibona nel 1943: una delle tante e terribili spedizioni punitive delle camice nere che insanguinarono il paese. Graziato dall’amnistia di Togliatti a Magni, che dopo quell’episodio fu costretto ad abbandonare la Toscana e trasferirsi in Brianza, lo storico inglese John Foot ha cercato di offrire una tarda riabilitazione politica, scovando dei documenti in cui si attesta che nel 1945 prese parte attiva alla Resistenza col CLN di Monza. Ma Fiorenzo Magni era oramai entrato nella storia come il terzo uomo. Al di là di Coppi e Bartali, di Don Camillo e Peppone, la sua rimane una figura altra.

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