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Si dice “LA” giudice

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Oggi farò la maestrina bacchettandovi un po’ (non mi è difficile essendo figlia di una prof di italiano e latino…), soprattutto a voi amici giornalisti! D’ora in poi, quando parlate di una donna che porta la toga, dovrete scrivere “la giudice”, lasciando riposare l’articolo maschile. E se siete perplessi, leggetevi il libro di Paola Di Nicola, edizioni Ghena, che esce lunedì 24 settembre, proprio con quel titolo.

Sembra una problematica stucchevole e di poco conto e la stessa magistratA racconta che è arrivata a esigere il femminile solo dopo vent’anni di carriera. “La toga, in fondo, è la stessa, la declinazione non serve”, si è ripetuta ingenuamente per anni. Ma l’abito, si sa, non fa il monaco e così un giorno, tra le altre cose, si è ritrovata di fronte un imputato che, nonostante l’abito, la targa e l’alto scranno, le ha intimato, dandole del tu: “Vammi a chiamare il giudice!”. Seppure “autorità” sia termine femminile, mentre “potere” significativamente maschile,“l’autorità femminile è uno schiaffo quotidiano al pregiudizio”, racconta la giudice.

Quale pregiudizio? Senza esclusione per esimi intellettuali, lo stesso che ha proibito alle donne di entrare in magistratura fino agli anni ’60: “Le donne sono superficiali, leggere, emotive, passionali, impulsive, insomma non in grado di giudicare alcunché, men che meno delitti e delinquenti”, echeggia la Di Nicola.

Come in tanti altri settori nel nostro paese, pur essendo ormai le donne quasi la metà dei magistrati italiani, restano largamente escluse dai ruoli direttivi…i quali ragionano di conseguenza. La stessa scrittrice racconta al proposito, di una sua recente battaglia legale – vinta con una sentenza del Tar – nei confronti del Consiglio superiore della magistratura che le aveva negato il diritto al ricongiungimento familiare, pensate un po’, perché separata dal marito.

Una volta di più le parole raccontano la realtà. E per cambiare le cose, forse, si può partire anche da quelle. Suona male, si dice, la parola “ministra”. E perché non invece il termine assai simile “maestra”? Abitudine, certo. Quando la Merkel diventò Cancelliera per mesi i giornalisti hanno continuato a chiamarla “Cancelliere”, ma ora la prassi sembra cambiata e nessuno si stizzisce più. E allora muovetevi, cari cronisti, è alla vostra deontologia produrre “cultura” oltreché “informazione”. Prendete atto che quella cultura, fortunatamente, un po’ è cambiata.

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