C’è un patrimonio culturale e storico, immenso, inestimabile e unico, che sta per finire distrutto dall’incuria e dal degrado senza che nessuno muova un dito. E’ l’archivio storico di Radiorai, la “nastroregistroteca”, come la chiamano gergalmente nei corridoi di via Asiago a Roma, sede centrale della Radio pubblica. Dentro lunghi corridoi che corrono anche sotto la sede di via Teulada, ci sono 400 mila nastri di registrazioni dal 1950 ad oggi. C’è tutta la storia d’Italia, c’è tutta la storia della Repubblica, ma anche quella degli ultimi anni della guerra. C’è, soprattutto, racchiuso in quelle teche, la cultura e il senso di un’intera nazione, radici di appartenenza (e anche di disuguaglianza) che sono state fatte crescere anche attraverso trasmissioni radiofoniche che hanno unito un popolo ben prima della televisione. E anche dopo di lei.

Ebbene, questa nostra straordinaria memoria collettiva adesso sta per spegnersi. Perché è in stato di abbandono. I nastri di registrazioni antichissime, molto spesso pezzi unici, sono contenuti su supporti fragili, perché vecchi e tra un po’ non ci saranno neppure più le apparecchiature su cui farli girare per ascoltare di nuovo voci storiche perse nel tempo che talvolta nessuno ha mai ascoltato. E ancora dischi, “lacche”, che suonerebbero arie di opere dirette da Toscanini, per esempio, se solo ci fossero le puntine per i giradischi che, invece, non ci sono più. Il paradosso è che tutto questo materiale non è neppure catalogato. E quando andranno in pensione i suoi ultimi custodi, persone che quei nastri li hanno diligentemente riposti sugli scaffali nel corso del tempo e sanno “dove si trova cosa”, nessuno sarà più in grado di ritrovare nulla e, dunque, sarà come non avere più nulla.

La nostra storia documentata, in poche parole, sta per finire in polvere. Qualche giorno fa, uno dei pochi custodi rimasti, ha ritrovato casualmente l’unica copia della prima interpretazione di Vittorio Gassman dell’Amleto; era il 1954. Ma solo pochi metri più in là si sa che sono presenti i discorsi di Benito Mussolini piuttosto che quelli del primo presidente della Repubblica Italiana, Enrico De Nicola. Scaffali interi di nastri e di storia che nessun dirigente di Radiorai, almeno fino ad oggi, ha mai tentato di mettere in sicurezza o di valorizzare attraverso delle azioni mirate anche di catalogazione. E non c’è solo l’archivio di Roma. Ci sono anche quelli delle sedi regionali della Rai. Sono altri 150 mila nastri di storia dei popoli d’Italia. Qualcuno ha tentato di quantificare economicamente il valore di questo archivio e il risultato è stato che nessuno è in grado di stimarlo veramente. Si ipotizzano comunque cifre iperboliche che, però, nessuno nella Rai degli ultimi anni ha pensato di poter monetizzare in alcun modo.

Uno scandalo, in qualsiasi modo la si metta. Molto superiore, dal punto di vista culturale e politico della gestione aziendale, di tanti altri che si affastellano sulle pagine dei giornali con maggior risalto. E solo perché riguardano la tv. La Rai non può permettere che il senso stesso del suo essere “servizio pubblico” – l’archivio storico – finisca rosicchiato dai topi e sepolto dalla polvere. Non c’è neppure una ragione economica sotto questa tragedia dell’incuria e dell’ignoranza; digitalizzare l’intero archivio Rai costerebbe poco più di 100 mila euro, se fatto con personale interno; una briciola per la tv pubblica. Certo, ci vorrebbe un sacco di tempo, dai cinque ai sei anni, ma ne varrebbe la pena. Perché poi quel materiale potrebbe essere messo a disposizione di tutti, anche via internet, solo per la fruizione, casomai.

Insomma, salvare una fetta importante, fondamentale, della nostra cultura e della nostra storia non costa nulla e varrebbe tanto. Eppure, anche il neo direttore generale, Luigi Gubitosi, non sembra interessato alla faccenda, ma gli ultimi custodi di questo tesoro collettivo, dei semplici lavoratori Rai di via Asiago, non hanno alcuna intenzione di darsi per vinti e stanno preparando un appello al Presidente della Repubblica perché intervenga sui vertici aziendali imponendo la salvaguardia della “nastroregistroteca”. Perché quella “storia” siamo noi e un popolo senza memoria, si sa, non ha futuro. 

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