Non chiamatela sanatoria. Al massimo “ravvedimento oneroso”, ma soprattutto “misura transitoria”. E’ la legge che introduce sanzioni più severe per chi fa lavorare in nero gli immigrati senza permesso di soggiorno. Bruxelles la chiede dal 2009 e, nel silenzio di questa estate a tutto spread, il ministro per l’Integrazione Andrea Riccardi ha finalmente recepito il giro di vite. Con un’eccezione però: dal 15 settembre al 15 ottobre chi impiega illegalmente i clandestini, siano badanti o muratori, può regolarizzare quei rapporti di lavoro senza incorrere nelle pesanti pene previste dall’Ue. Apriti cielo, perché una volta sistemato il contratto e pagato il dovuto allo Stato, al migrante verrà concesso anche l’agognato permesso di soggiorno.

Una sanatoria insomma, ancora più estesa di quella del 2009 destinata solo a colf e badanti. Nonostante sia stata approvata dal governo Berlusconi-Bossi solo tre anni fa, oggi il centrodestra grida allo scandalo: non solo il provvedimento “è in contrasto con il reato di immigrazione clandestina”, ma si dimostra “razzista nei riguardi dei lavoratori italiani”. Maurizio Gasparri tuona: “Su una cosa del genere il governo rischia la sopravvivenza”, Roberto Maroni (titolare del Viminale nel 2009) da Facebook invece dichiara “guerra totale” contro “un atto criminale”.

Panico anche sui numeri. Riccardi, pur convinto che l’iniziativa varata da Palazzo Chigi “non sia una sanatoria”, annuncia 150mila regolarizzazioni. La Lega denuncia che alla fine i migranti sanati saranno 800mila con perdite per la sanità pubblica nell’ordine di “43 milioni di euro nel 2012 e 130 negli anni successivi”. Caritas e associazioni per i diritti dei migranti prevedono invece 3 o 400mila permessi. Fatto sta che, seppur con mille distinguo e continuando a ripetere che “non si tratta di una sanatoria, ma di un’emersione individuale dal lavoro nero secondo precisi paletti”, ora mancano solo i decreti attuativi per chiarire gli ultimi dettagli della misura. Ed ecco che “l’amnistia a pagamento”, come la definiscono Pdl e Lega, si dimostra tutt’altro che di manica larga: i clandestini devono dimostrare di essere ininterrottamente sul territorio nazionale dal 31 dicembre 2011 e con lo stesso lavoro da almeno tre mesi. Se poi sono stati identificati dalle polizie di un paese dell’area Schengen non possono inoltrare domanda, ma il divieto decade se a decretare l’espulsione sono state le autorità italiane.

C’è di più: i datori di lavoro che intendono regolarizzare i dipendenti stranieri devono pagare una tassa (che in caso di diniego non viene restituita) di 1000 euro e versare allo Stato gli ultimi sei mesi di contributi. Non uno scherzo perché nel caso di lavoratori domestici si viaggia sui 4000 euro, cifra che però sale a 14mila per impieghi full time in altri settori, come edilizia o agricoltura. Una bella boccata d’ossigeno per le casse pubbliche, ma anche un ginepraio di normative che rischia di costare molto caro a chi decide di mettersi in regola.

Ma cosa pensano della “sanatoria mascherata” le associazioni, laiche e cattoliche, che si occupano dei diritti dei migranti? Nulla di buono. Lo ‘Sportello dei Diritti” chiede più coraggio a Riccardi e rilancia la proposta del monsignor Bruno Schettino – presidente della Commissione Cei per l’immigrazione e della Fondazione Migrantes – di rilasciare un permesso di soggiorno a tutti gli irregolari per un anno, “in modo di farli uscire dalla clandestinità”. Il Naga di Milano invece sottolinea le insidie nascoste in un provvedimento “che si è voluto mantenere il meno chiaro possibile per placare i mal di pancia di alcuni partiti della maggioranza”. Primo fra tutti il rischio che alla fine chi dovrà sborsare il denaro sarà proprio il migrante bisognoso di un permesso di soggiorno e disposto ad affidare i propri risparmi a chi presenterà domanda. Come accaduto nelle sanatorie precedenti, spesso l’imprenditore, o peggio l’intermediario di turno, sparisce con i soldi e lo straniero, dopo essersi autodenunciato come clandestino, rimane senza il becco di un quattrino. Cose che capitano, anche in una “non sanatoria”.

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