L’incontro con Sasà Striano a Tagliacozzo ha dato molti spunti di riflessione. Vorrei cominciare dal film, anche a rischio di addentrarmi in un terreno in cui non sono competente. In “Cesare deve morire” i fratelli Taviani, alla loro età, hanno avuto coraggio. Per una volta, i criminali non sono rappresentati dai soliti bellocci improbabili di tanti film e fiction italiani. Gli attori sono i detenuti stessi: uomini veri, facce dure, con i loro corpi adiposi, le cicatrici, i tatuaggi. Le loro passioni, i dubbi, i contrasti, le speranze. Le scene sono girate in un carcere vero, con il bianco e nero che acuisce la drammaticità della situazione.

Da anni vado sostenendo che in galera si trovano personaggi e situazioni che meritano una rappresentazione. Che vada oltre i soliti stereotipi della violenza, gli aguzzini, l’evasione come unico viatico per la libertà. Credo che succeda un po’ come per i film dedicati allo sport: non ne ho mai visto uno verosimile. Sarà che la vita vera, in certe situazioni, può sembrare poco spettacolare, troppo normale, forse noiosa. E allora gli autori la infarciscono di storie inventate, nel tentativo di aggiungere pathos. I Taviani, assistiti dall’ottimo regista teatrale Cavalli, hanno lavorato su un testo immortale di Shakespeare. E il colore ritorna , come diceva qualcuno, solo quando il cinema ritorna a teatro, da cui è venuto. Per poi riprendere il grigiore della quotidianità.

Con Striano abbiamo parlato di molte cose. Viviamo un’epoca di crisi nera. Cominciano a vacillare posizioni che credevamo consolidate, anche a noi vicinissime: parenti e amici “sistemati”, il bancario, l’avvocato, l’imprenditore, il grafico, stringono la cinghia; una coppia dell’appartamento di sotto, lui ingegnere e lei medico, costretti a lasciare casa perché non ce la fanno con l’affitto. I precari ormai rassegnati a restare tali. E c’è chi crede che detenuti ed ex detenuti siano addirittura avvantaggiati nella ricerca di lavoro. Al contrario, è molto difficile per loro restare nei limiti di una vita onesta; nella migliore delle ipotesi sottopagati, loro che saprebbero ben muoversi in una società dalla morale slabbrata

Striano veniva dalla malavita dei quartieri spagnoli napoletani. A 32 anni entrava in carcere con la terza elementare. Attraverso la scuola, s’innamora della cultura alta. Scoperrto il suo talento d’attore, fa teatro in carcere e comincia con il cinema. Gomorra con Garrone, poi i Taviani. Oggi gira l’Italia e il mondo a presentare l’ultimo film, un successo internazionale di pubblico e di critica. Si può dire che è uno di quei pochi che ce l’ha fatta (o almeno ce la sta facendo) a uscire da certi giri e vivere una vita normale. Grazie alla scuola e alle opportunità che un carcere aperto come Rebibbia ha potuto offrirgli.

L’alternativa, come vorrebbe qualcuno, è chiudere in cella i delinquenti e buttare la chiave, almeno fino a che la condanna sia espiata. Per un malinteso concetto di certezza della pena. Al contrario, la zero tolerance ha dimostrato di far proliferare criminalità e violenza. Chi è rinchiuso senza sconti e maltrattato, non può che uscire incattivito, più incazzato e affamato di prima, impreparato alla vita sociale, inaccettato. Pronto, anzi quasi obbligato a fare reati. Dare opportunità di revisione critica non è un lusso. Conviene a tutti. L’interesse di chi ha sbagliato e vuole cambiare va a coincidere con l’esigenza di sicurezza sociale per noi “regolari” e le nostre famiglie.

I detenuti, con tutto il contorno e l’indotto che gira intorno agli istituti penitenziari, hanno un costo elevatissimo per noi contribuenti. È interesse comune rimetterli in libertà, quando è ora, con un’occupazione che gli consenta di non dover commettere nuovi reati. È un concetto banale, che però stenta ad essere accettato, forse perché va a cozzare con l’idea arcaica della funzione risarcitoria e deterrente della pena. Ma è scritto a chiare lettere nell’art. 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

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