Rossalla Urru, o semplicemente Rossella come la conoscono tutti a Ravenna, era una di tante ragazze che lavorano nella cooperazione internazionale a Ravenna.

Una dei molti che impiegano il tempo della propria vita per un lavoro che è prima di tutto un ideale. Anche se gli ideali sono passati di moda da più di venti anni, questo ideale resiste ancora. È sopravvissuto al crollo del muro di Berlino, al disfacimento dei valori cattolici, agli scandali politici, allo sfaldamento del capitalismo moderno. Perché è un ideale diverso. È il dare valore della vita degli altri, di quegli “altri” che nessuno considera perché al di fuori della nostra società e delle nostre convenzioni, al di fuori del benessere, al di fuori dello sguardo.

Rossella è nata in Sardegna, ha studiato e ha lavorato a Ravenna, e a settembre riceverà la cittadinanza onoraria della città romagnola, fortemente voluta dal sindaco Matteucci. Ma Rossella non appartiene alla Sardegna, né all’Emilia-Romagna, Rossella è africana.

Anche chi conosce Rossella solo attraverso i racconti dei suoi colleghi, o aveva visto il suo sguardo vivido nelle foto che la ritraevano al lavoro, aveva capito cosa voleva questa ragazza. Basta sentirla parlare solo una volta per capire che la sua non era una decisione momentanea, ma una scelta di vita, e dopo i festeggiamenti per la liberazione, dopo gli abbracci, le dimostrazioni d’affetto e la riconoscenza di molti, Rossella sarebbe tornata in Africa. Perché è lì che sa di dover stare, dove sente che c’è più bisogno di lei.

Anche se ha sofferto molto, se per nove lunghissimi mesi è stata rapita e ha temuto di non tornare più a casa, nonostante tutto Rossella ce l’ha fatta perché sostenuta dalla certezza che quello che stava facendo era giusto e doveroso.

Perché gli ideali, quelli veri, quelli che non sono mai stati di moda, non possono essere soffocati nemmeno dalla paura di morire.

Per questo a Rossella, a Mario, ad Anita, a Giovanna, a Mohamed, ad Antonella, a Simona, ad Andrea e gli altri di cui forse non sentiremo mai parlare dobbiamo almeno una parola: Grazie.

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