Una turista di 22 anni viene trovata rannicchiata a terra vicino alla Stazione Termini, ha un’emorragia e viene ricoverata in gravi condizioni nel reparto di ginecologia del Policlinico di Roma.

I  medici che la visitano sospettano uno stupro ma nelle prime ore la stessa donna dichiara di avere avuto un rapporto sessuale consenziente. Il giorno seguente una psicologa la ascolta e  conclude che lo stupro sia avvenuto e che la ragazza neghi per la vergogna e l’attenzione suscitata nei media.

Questa è la storia accaduta a Roma mercoledì, poi ci sono i modi per raccontarla.

Molti articoli e servizi televisivi hanno titolato o commentato che c’era il consenso e quindi non c’era stata violenza nonostante il ricovero in gravi condizioni in ospedale e l’intervento chirurgico. Nulla è accaduto.

Qualche altro articolo ha ricordato due aggressioni avvenute a Roma nei giorni precedenti: non mancheranno le solite strumentalizzazioni politiche che vengono fatte sullo stupro e che riducono la violenza alle donne ad una questione di sicurezza invece che di relazione tra uomini e donne e di cultura.

Forse il sindaco Gianni Alemanno farà ristampare il Vademecum antistupro.

Riguardo alla giovane ricoverata al Policlinico, la magistratura prosegue le indagini, mentre sulla stampa tutto pare ridursi alla domanda: non c’era il consenso o c’era il consenso?

Come se il consenso ad avere un rapporto sessuale fosse una sorta di cambiale in bianco, un lasciapassare dato ad un uomo nel poter fare del corpo di una donna ciò che vuole. Come se il consenso dato da una donna fosse una giustificazione per trasformarne il corpo in una cosa inerte, una bambola di pezza da strappare e da poter abbandonare esanime per strada: come un oggetto o uno straccio.

Che ci sia stato il consenso iniziale o non ci sia stato: questa è stata una violenza.

Penso ai corpi delle oltre settanta donne massacrate dall’inizio dell’anno, penso alle donne  che vedo al pronto soccorso o al centro antiviolenza con i lividi addosso, e non posso fare a meno di associare il ricordo delle  immagini pubblicitarie  che ritraggono  parti anatomiche femminili per promuovere la vendita di qualcosa o ancora fotografie di donne umiliate, picchiate, violate, ferite, fotografate anche  nella posa di un cadavere depositato nel baule di un’auto solo per fare pubblicità a qualche griffe.

Penso ai cartelloni pubblicitari volgari con una donna seminuda e la scritta a fianco Montami a costo zero  o Te la do gratis.

Gallerie fotografiche che sono state  raccolte  due anni fa dall’associazione Donne pensanti nel video La vie en rose. Immagini che incontriamo quotidianamente nei cartelloni pubblicitari, sulle pagine patinate dei  giornali alla moda  o  in televisione e che non raccontano mai  le donne ma rappresentano che cosasiano le donne nella nostra cultura. La rappresentazione delle donne alimenta l’immaginario e l’immaginario diventa un  modello. E finiamo per accettare l’inaccettabile come fosse routine.  E’ normale che una donna finisca in chirurgia  per del “sesso un po’ violento?”

Nel mondo che ci viene incontro e che reifica sempre più gli esseri umani, il corpo della donna è diventato l’oggetto per eccellenza. La donna cosa.

La cultura dell’immagine, non solo in Italia, la mostra come prodotto disponibile e a disposizione, privato di soggettività che si può utilizzare, distruggere, deturpare a piacimento, se poi si è pagato perché è una donna che si prostituisce o una donna che desidera avere un rapporto sessuale  è come se fosse stato acquistato o dato in regalo  e  forse può anche essere lasciato a terra esanime e in una pozza di sangue senza che nessuno riconosca che sia violenza perché c’è stato il consenso.   

Si! Siamo un prodotto ideale da consumare.

Forse è per questo che i media hanno potuto raccontare questa strana storia di violenza che poi violenza non è, senza porre alcuna domanda oltre il problema del consenso, ricordandoci ancora una  volta che ….cosa… sono le donne.

di Nadia Somma

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